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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Gutierrez aveva preso da una tasca del giaccone alcuni fogli. Apparentemente, non si accorgeva che c’era qualcuno, nella stanza, oltre a Erdmann. Porse i fogli all’altro, e disse:

«Mia moglie pensava che io non dovessi venire qui a disturbarti, oggi. Ha nascosto la mia chiave del cancello di sicurezza. Ma, naturalmente, era una cosa troppo importante, per aspettare».

Abbassò lo sguardo sui fogli.

«Ho completamente rifatto tutta la sequenza di equazioni. Ho trovato l’errore».

Qualcosa parve irrigidirsi, nel volto di Erdmann, e la sua espressione si fece cauta.

«Sì?»

«È evidentissimo, puoi vederlo tu stesso. Ecco».

Mise i fogli in mano a Erdmann. Erdmann cominciò a esaminarli. E subito apparve sul suo volto un’espressione di acuto disagio, di dispiacere e sconforto.

«Vedi, no?» disse Gutierrez. «È chiaro come la luce del sole. Clementina ha commesso un errore, Frank. Te l’avevo detto. Tu dicevi che non era possibile, e invece è così».

«Julio, io…» Erdmann scosse il capo, lentamente, e lanciò un’occhiata disperata a Len, e non trovando aiuto da quella parte ricominciò a sfogliare nervosamente i documenti che l’altro gli aveva dato.

«Non vedi, Frank?»

«Be’, Julio, tu sai bene che io non sono un matematico…»

«Accidenti,» esclamò Gutierrez, impaziente. «Come hai fatto a diventare ingegnere elettronico, allora? Ne sai abbastanza per capire l’errore. È chiarissimo. Lo capirebbe anche un bambino». Si piegò sui fogli che Erdmann teneva in mano. «Qui, e qui, vedi?»

Erdmann disse:

«Cosa vuoi che faccia per te, allora?»

«Be’, sottoporre di nuovo le equazioni, per correggerle. Poi avremo la risposta, Frank. La risposta!»

Erdmann si inumidì le labbra.

«Ma se ha commesso un errore una volta, potrà commetterne un altro, Julio. Perché non chiedi a Wentz o a Jacobs…»

«No. Impiegherebbero l’intero inverno… forse un anno. Clementina può fare tutto subito, ora. L’hai provata. L’hai detto tu. Hai detto che va liscia come l’olio. È per questo che ho voluto venire qui oggi, mentre è ancora fresca e pronta, non è stata ancora usata dopo la revisione. Ora non può commettere lo stesso errore. Avanti, sottoponi le equazioni».

«Io… bene,» disse Erdmann. «Va bene, Julio».

Si avvicinò al meccanismo e cominciò a trasferire i dati su nastro. Gutierrez aspettò. Indossava ancora il pesante giaccone che aveva usato fuori, nella neve, ma non pareva trovarlo scomodo, né avvertire il caldo dell’ambiente. Osservava Erdmann, e di quando in quando fissava il computer e sorrideva e annuiva, come un uomo che ha colto in errore una persona molto presuntuosa, e vuole godersi fino all’ultimo la propria rivincita. Len si era ritirato ai margini della stanza, cercando di svanire sullo sfondo della scena. Non gli piaceva l’espressione di Erdmann. Cominciò a domandarsi se non avrebbe fatto bene ad andarsene, e poi le luci sui pannelli cominciarono ad ammiccare e a brillare, e la voce sommessa ronzava e mormorava e ticchettava, e Len fu affascinato come Esaù, e non poté più muoversi.

Trasalì, quando Erdmann si rivolse a loro, dicendo:

«Sarò libero tra un momento. Allora potrò rispondere alle vostre domande».

«Preferite che ritorniamo più tardi?» domandò Len.

«No,» disse Erdmann, lanciando un’occhiata di sbieco a Gutierrez. «No, restate qui».

Clementina cominciò a riflettere, borbottando sommessamente tra sé. A parte quel rumore di sottofondo, nella stanza c’era un grande, bizzarro silenzio. Guttierez era calmo, diritto, con le mani conserte, in attesa. Erdmann appariva teso e nervoso e malinconico. C’erano delle goccioline di sudore sul suo viso, e continuava ad asciugarsele, passandosi la mano sulla bocca e sulla fronte e guardando Gutierrez con un’espressione di totale disperazione.

«Ho paura che durante la revisione abbiamo trascurato alcuni circuiti, Julio. Non è stata revisionata completamente. Può darsi che…»

«Parli come mia moglie,» sorrise Gutierrez. «Non preoccuparti, la risposta uscirà».

Si udì il ticchettio che preannunciava la risposta. Erdmann fece un passo avanti. Gutierrez lo scostò con una gomitata, e strappò la striscia di carta dalla fessura, e guardò la risposta. Il suo volto si oscurò, e poi tutto il colore scomparve dalle sue guance, lasciandolo livido e grigiastro e scosso, e le sue mani cominciarono a tremare.

«Che cosa hai fatto?» domandò a Erdmann. «Che cosa hai fatto alle mie equazioni?»

«Niente, Julio».

«Guarda che cosa ha detto! Nessuna soluzione, ricontrollare i dati per eventuali errori. Nessuna soluzione. Nessuna soluzione…»

«Julio. Julio, per favore. Ascoltami. Hai lavorato per troppo tempo, su questo progetto, sei stanco. Ho sottoposto le equazioni alla macchina esattamente come me le hai fornite, ma le equazioni…»

«Le equazioni? Avanti, dillo, Frank. Avanti!»

«Julio, per favore,» ripeté Erdmann, con un’aria smarrita, e tese la mano a Gutierrez, come si fa con un bambino per chiedergli di venirci accanto.

Gutierrez lo colpì, lo colpì così repentinamente, e così violentemente, che Erdmann non ebbe né il tempo né il modo di evitarlo. L’ingegnere elettronico indietreggiò di tre o quattro passi, vacillando, e cadde sul pavimento, e Gutierrez disse, con voce terribilmente calma:

«Siete contro di me, tutti e due. Vi siete accordati, voi due, in modo che lei non mi desse mai la risposta giusta, qualunque cosa io avessi fatto. Ho pensato a te per tutto l’inverno, Frank, chiuso qua dentro con lei, ridendo, perché lei sa la risposta e non vuole dirmela. Ma la costringerò a parlare, Frank. Gliela farò sputare, la risposta».

Aveva dei sassi nelle tasche. Per questo non aveva voluto togliersi il giaccone, nell’ambiente riscaldato di Bartorstown. Aveva raccolto molti sassi, grossi e aguzzi e pesanti, e li tirò fuori, uno dopo l’altro, e li lanciò uno a uno contro Clementina, gridando, con gioia selvaggia:

«Te lo farò dire, puttana, lurida puttana traditrice, lurida puttana bugiarda, te lo farò sputare!»

Il cristallo sul pannello di comando si frantumò tintinnando. Scintille indicarono l’inizio di una serie di corti circuiti. Uno dei grandi recipienti di cristallo che contenevano una parte della memoria di Clementina si aprì. Frank Erdmann si rialzò dal pavimento, vacillando, gridando a Gutierrez di fermarsi, chiedendo aiuto. E Gutierrez aveva finito i sassi, ora, e cominciava a picchiare i pugni sui pannelli, scalciando e picchiando, urlando, «Puttana, puttana, puttana! Te lo farò dire, parlerai, hai preso la mia vita, la mia mente, il mio lavoro, hai chiuso tutto dentro di te, te lo farò dire!»

Erdmann era alle sue spalle, lo aveva afferrato, cercava di fermarlo.

«Len, Esaù, per l’amor di Dio, aiutatemi. Aiutatemi a tenerlo».

Len si fece avanti, lentamente, muovendosi come un sonnambulo. Alzò le braccia e strinse le spalle di Gutierrez. Gutierrez era molto forte, era difficile trascinarlo via dal pannello devastato, e ora c’erano delle nuove luci che lampeggiavano e ammiccavano, luci rosse che dicevano, Sono ferita, aiutatemi, sono ferita, aiutatemi. Len guardò quelle luci, e guardò negli occhi Gutierrez. Erdmann ansava. C’era del sangue che usciva da un angolo della sua bocca.

«Julio, ti prego, non fare così, calmati. Ecco, così, Len, un po’ più indietro, ora… Va tutto bene, Julio, ti prego, stai calmo».

E Julio si calmò, improvvisamente. Non ci fu alcuna transizione. Un attimo prima i suoi muscoli sòlidi come roccia lottavano come furie contro la stretta di Len, e un secondo più tardi si afflosciò inerte, vacillante, debole, come un sacco vuoto e floscio. Si voltò a fissare Erdmann, e disse, con infinita rassegnazione:

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