Ma nessun nascondiglio rimaneva sicuro in eterno. Oberg capì, salendo le scale, che il taglio netto con l’Organizzazione era stato tanto necessario quanto inevitabile. Ora non era più legato ad alcun protocollo. Poteva muoversi nella penombra, in quel posto così lontano dalla terraferma. Era un cane sciolto. Poteva sguazzare dove voleva.
Il pensiero lo fece sorridere. Guardatemi sguazzare!
Si spostò con leggerezza sul pavimento di legno della stanza che era stata il suo studio.
Era un locale spazioso, illuminato da ampie finestre. I raggi del sole disegnavano strisce parallele sul pavimento. Oberg aprì i cassetti, guardò dietro gli specchi. Perquisì tutto con metodo e grande concentrazione. Non stava cercando nulla in particolare, ma se c’era qualcosa di interessante lo avrebbe capito al primo sguardo.
La vide, alla fine, annidata in fondo a un cassetto dell’armadio, dietro a una gonna di cotone color pastello. Era una minuscola fiala di plastica, grande come la custodia di un microfilm, senza etichetta. Nell’interno opaco tintinnava qualcosa.
Lui aprì il tappo con l’unghia del pollice.
Il profumo era acuto e seducente. Una piccola pillola nera gli rotolò nel palmo. Gli anni l’avevano resa resinosa. Non ce n’erano altre.
Qualcosa che lei aveva tenuto per ricordo, pensò Oberg. Una specie di monito, oppure la prova di qualcosa, un memento.
Bagnò il dito nell’olio rimasto sul fondo della fialetta e se lo portò alle labbra.
Aveva un sapore amaro, asprigno. E bastò a provocargli un debolissimo senso di benessere.
Encefaline, pensò. In alta concentrazione.
Fece ricadere la pillola nel suo contenitore e richiuse il tappo.
Per la seconda volta, non riuscì a trattenere un sorriso.
I suoi sogni erano peggiorati, dopo la partenza di Keller.
Ancora la bambina, naturalmente. Ma l’atmosfera era cambiata. Aveva appreso troppe cose, tramite la pietra di Pau Seco. Ora la bambina appariva sullo sfondo delle scene apocalittiche dell’incendio: fuoco, fiamme e facce terrorizzate. Aveva gli occhi coperti di fuliggine ed era sola, lontano dalla terraferma e timorosa per la propria vita.
— Ho bisogno di te — le diceva. — Ti ho già salvato una volta. Non è giusto! Non puoi lasciarmi morire qui!
Ma nei sogni lei poteva solo distogliere lo sguardo.
Si svegliò coperta di sudore. Era sola, nel retro di quella nuova balsa nel cuore della Città Galleggiante, al buio, in un ambiente che tardava a diventarle familiare. Byron dormiva nella stanza accanto, che fungeva anche da cucina. Cambiò posizione e si sentì vuota come una bottiglia ributtata dal mare sulla spiaggia. Il pavimento si sollevò un attimo, come mosso da una mano invisibile. Lei chiuse risolutamente gli occhi e pregò il cielo di non mandarle altri sogni.
Il mattino arrivò parecchie ore più tardi, e la sua luce filtrò timidamente dall’unica finestra della camera.
Teresa si sedette sul letto, infilò la vestaglia e inspirò a fondo. Da quel giorno a Belem si sentiva perennemente intontita. Intontita, svuotata e senza radici. Forse anche Keller si sentiva nello stesso modo. Angelo in fuga. Solo che lei non era un Angelo. Era semplicemente Teresa, circondata di nebbia. Di tanto in tanto arrivava a chiedersi come si sentiva, come si sentiva davvero. Ma era un po’ come passare la lingua su un ascesso: il dolore superava di gran lunga la curiosità.
Andò in cucina e preparò un uovo al tegame per Byron, sul vecchio fornello elettrico. Era l’ultimo prodotto commestibile rimasto in casa.
Byron indossava pantaloni da lavoro color cachi e la giacca mimetica ormai consunta. Teresa lo guardò, ma non riuscì a trovare nulla da dirgli. Non avevano parlato molto da quel fatidico giorno a Belem. Tra loro era calato uno strano muro di rimorsi e di vergogna. Lei non gli aveva nemmeno accennato a ciò che aveva visto in trance, né riguardo a se stessa, né riguardo alla complessità della storia in generale. Quando ebbe finito di mangiare, Byron si alzò e sistemò la stanghetta degli occhiali dietro le orecchie. Poi le disse che usciva.
— Dove vai?
— A riprendere certi contatti — rispose lui, in tono vago. — Abbiamo bisogno di soldi per rimanere qui. Ho alcuni crediti da riscuotere.
— Devi proprio andare?
Lui annuì.
— Va bene — disse lei. — Stai attento.
Byron si strinse nelle spalle.
Rimanere sola era la cosa peggiore.
Si meravigliò di provare un malessere tanto profondo. Meglio cercare qualcosa da fare. Tenersi occupata l’avrebbe aiutata.
Byron le aveva lasciato dei soldi per la spesa. Avrebbe raggiunto il canale del mercato, e magari si sarebbe concessa una passeggiata nei pressi della diga. Le avrebbe fatto bene. Mise il denaro nella tasca della camicia e l’abbottonò. Valeva la pena di dare un’occhiata al frigorifero, pensò. Era un modello economico, adeguato al tono modesto della balsa. Conteneva una bottiglia di acqua fresca e una fetta di pane stantio. Allora, c’era bisogno di frutta, verdura, e magari un po’ di carne. Qualcosa per tenere insieme l’anima e il corpo.
In pratica, saltò la colazione.
Al canale del mercato, dunque. Ma prima tornò a dare un’occhiata nella sua stanza, guardò il letto sfatto e il vecchio armadietto dell’Esercito della Salvezza. Con indolenza, andò ad aprire l’ultimo cassetto in alto.
La pietra era sempre lì.
Sembrava piccola e insulsa, adagiata tra i suoi vestiti. Quasi banale… finché non la si guardava meglio, permettendo alle sfaccettature di sedurre lo sguardo. Poi non si riusciva più a distogliere gli occhi. Una parte di lei fu tentata di prenderla in mano.
L’altra parte si rifiutò. Teresa chiuse il cassetto con forza.
Aveva ritrovato il senso della sua natura aliena. Era stata la pietra, si disse, ad allontanare Keller. In quel momento, nella stanza dell’albergo di Belem, aveva visto la colpa terribile che lui custodiva nel cuore da più di dieci anni. La donna morente di Rondonia: Meg, così si chiamava. La sua esitazione. Peggio ancora, la sensazione bruciante della propria vigliaccheria.
Lei capiva, naturalmente. Non era un peccato difficile da perdonare.
Ma Keller non poteva sopportare che lei avesse visto.
E poi c’era il resto. La bambina, il fuoco, l’odioso Carlos. Aveva perso molto, non solo Ray ma anche la sensazione di avere uno scopo, l’intimità con le pietre, la speranza di un futuro…
Si sforzò di svuotare la mente. Avrebbe pensato a tutto più tardi. Uscì dalla balsa , chiuse la porta a doppia mandata e si unì alla gente che affollava le passerelle del canale. Camminò controsole, socchiudendo gli occhi, e si dispiacque di non poter vedere l’oceano.
Camminare era così piacevole che dimenticò di fare la spesa. Oltrepassò le bancarelle con le loro tende variopinte e le barche cariche di verdura, e si diresse istintivamente verso il mare.
La passerella curvava verso nord costeggiando il muro di cemento. Teresa salì su una serie di montanti a catena fino a raggiungere il bordo superiore della diga. Un fossato di acque tumultuose isolava le proprietà del ministero dei Lavori Pubblici e copriva una serie di gigantesche turbine. Verso sud si intravedevano schiere di fabbriche in disuso, magazzini abbandonati e cumuli di rifiuti che si stagliavano neri contro il centro sgombro di nuvole. A est, oltre il groviglio delle baracche, era visibile un lembo di terraferma, la sagoma inconfondibile di San Gabriel. A nord, un’altra distesa di baracche galleggianti e la diga che si assottigliava in direzione del continente. E a ovest c’era il mare.
I gabbiani volavano in cerchio sopra la sua testa e si tuffavano in picchiata sulla scia di una barca che ribolliva di rifiuti. L’aria sapeva di alghe e di salsedine. Peccato che non avesse portato un maglione per ripararsi dal vento.
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