— Al diavolo il tuo lavoro. — Mossero ancora qualche passo, avvolti da un’aura di rancore, senza parlare. — Anche per te è pericoloso tornare laggiù — commentò Byron. — L’Organizzazione potrebbe trovarti.
— Eseguirò la decodifica, metterò tutto in un elaboratore d’immagine e distruggerò la traccia di memoria originale. Anche se mi trovano non avranno prove. Niente che sia possibile usare contro Teresa.
— Dunque ti importa qualcosa di lei?
La domanda sembrò pungere Keller sul vivo. Non rispose.
— Se te ne importasse davvero rimarresti — osservò Byron.
— Non posso.
— E allora? Assumerai un nuovo nome? Troverai un altro lavoro da qualche parte?
Lui si strinse nelle spalle.
Diglielo tu — concluse Byron, in tono stanco. — Lasciami fuori da questa faccenda, per favore. Dille di persona che te ne vai.
— D’accordo — promise Keller.
Lei era nel retro della baracca a vedere qualcosa alla TV.
Keller osservò lo schermo al di sopra della sua spalla. Era uno sceneggiato d’amore scandinavo, trasmesso via satellite. Ma lei in realtà non lo stava guardando. Aveva l’espressione assente. Sollevò gli occhi su di lui e per un attimo furono soli nel silenzio della piccola stanza, mentre il pavimento dondolava dolcemente. — Te ne vai — disse Teresa.
Lui trasalì. Ma era logico che avesse indovinato. Dai piccoli silenzi, dalle mani contratte, dagli sguardi distolti. Si impose l’indifferenza. — Ho del lavoro da svolgere — replicò.
Lei sorrise debolmente. — Devi decodificare la memoria?
Keller annuì.
— E poi ne farai un video, giusto? — continuò lei. — Potrai finalmente disfartene. — Si alzò, passandosi una mano tra i capelli. — Tornerai?
La domanda fece a pezzi la sua determinazione. Non sapeva che cosa rispondere. Una parte di lui desiderava di non tornare, di non rivederla mai più. Ma non era interamente al sicuro dall’ adhyasa , dai suoi impulsi potenti e traditori. — Non lo so — rispose.
Lei annuì, come per ringraziarlo di essere stato onesto. Gli tese la mano, e lui la prese. Ma quando Ray accennò a voltarsi, lei lo trattenne. Aveva uno sguardo intenso e le sue dita stringevano con forza. — Non me ne importa — dichiarò con fervore. — Qualsiasi cosa sia successa non ha importanza, per me. Quello che è capitato con Meg… Non me ne importa.
Lui si scostò. Per un attimo provò il desiderio di crederle, di accettare ciò che lei gli stava offrendo. Ma non era in suo potere perdonarlo.
Teresa sapeva. E questo era insopportabile.
— Non ha importanza — ripeté lei seguendolo alla porta. — Ricordalo, Ray. Per favore. Ricordalo sempre.
Prese una barca-taxi dal canale del mercato fino ai grossi recinti industriali che segnavano la terraferma. Quando ritrovò la sua auto, parcheggiata in un posteggio a pagamento più di un mese prima, era già scesa la sera. Le strade che portavano alla città erano affollate, le autoradio diffondevano vertiginose cascate di musica forte, ritmata e triste. La città stessa era un fiume di luci e di cemento che si stendeva dal confine messicano all’arida periferia, dall’oceano al deserto. Dopo il Brasile, quell’atmosfera avrebbe dovuto scoraggiarlo. E invece no. Lo inebriava.
Nei canyons della notte era uno in mezzo a tanti, finalmente anonimo. Lì poteva perdere i suoi rimorsi, i suoi ricordi, la sua storia, se stesso.
Un tassista tailandese condusse Oberg in barca fino allo studio vuoto, vicino al margine della darsena.
Era una balsa molto particolare. Oberg la guardò dal pontile su cui era sbarcato. — Vive qui? — chiese.
— Ci viveva — rispose il tassista in tono laconico. — Forse ci vive ancora, ma non si è vista, ultimamente. — Rimase in attesa, fissandolo con intenzione. Oberg gli mise in mano alcune banconote sbiadite. Lui annuì e rimise in moto la barca, allontanandosi.
Rimasto solo, Oberg si arrampicò su una scala e raggiunse la passerella d’ingresso. Poi forzò la porta.
C’era molta polvere, all’interno.
Aveva previsto che non sarebbero tornati lì. Erano abbastanza saggi da evitarlo. Rintracciare Teresa Rafael era stato semplice, era molto nota fra i commercianti d’arte nelle gallerie sulla costa. Sotto molti aspetti, era stata una donna dalle abitudini prevedibili.
Eppure, anche se non era tornata lì, Oberg restava convinto di due cose: che si fosse stabilita da qualche parte della Città Galleggiante e che lui, prima o poi, l’avrebbe trovata. Era inevitabile.
Ciò che cercava in quello studio, l’appartato rifugio di bambù che lei aveva un tempo abitato, era al tempo stesso mistico e pratico: una prova della sua presenza, un pegno della sua vita.
L’aria quieta parve vibrare attorno a lui. Senza fretta, Oberg si mosse su per le scale.
Aveva preso informazioni sulla Città Galleggiante.
Non era una comunità. Da qui, il nome collettivo di Città. Anni prima, grazie a sovvenzioni statali e federali della durata di un decennio, al largo della costa della California erano state costruite delle enormi dighe. Era un’opera di ingegneria ambiziosa almeno quanto la grande Muraglia cinese, e tentava di conciliare il bisogno pressante di fonti d’energia che andava a scontrarsi con obiezioni di natura pratica ed ecologica.
Dopo anni di spese esorbitanti e l’estinzione di una mezza dozzina di specie marine minori, il progetto diede i suoi frutti. Da allora continuava a fornire la maggior parte dell’energia elettrica assorbita dai giganteschi insediamenti urbani in rapida espansione. La maggior parte, ma non tutta. I generatori fotici di Baja e di Sonora si facevano carico dei resto. Ed erano state le pietre esotiche a rendere possibile la loro messa in opera, sulla base di tecnologie rivoluzionarie.
Ma dal punto di vista di Oberg era molto più importante il campionario umano cresciuto all’ombra delle dighe. Le acque costiere, rinchiuse e imbrigliate, erano diventate all’inizio una specie di selvaggia zona industriale. Nacquero progetti di riempimento al largo di Long Beach, e di bacini di navigazione in acque profonde confinanti con la Diga del Porto. La gente meno abbiente si trasferì nelle vicinanze per soddisfare la richiesta di personale semispecializzato. Era inevitabile che molti lavoratori fossero al limite della legalità, in possesso di documentazione dubbia. Le prime baracche sorsero al riparo delle industrie, ma la popolazione crebbe anche quando le nuove fabbriche dovettero arrendersi di fronte alle tecnologie competitive degli Esotici. Gli abusivi occuparono i gusci vuoti dei vecchi magazzini.
Una rivolta di disoccupati, negli anni Trenta, stabilì una zona di autonomia, un confine oltre il quale la polizia civile e portuale rifiutava di avventurarsi. La contea di Los Angeles arretrò ufficialmente la propria giurisdizione dopo una serie di accordi negoziati con i leader degli scioperanti. Così si creò un precedente, tanto che ancor prima dell’incendio che devastò i ghetti galleggianti alla fine dello stesso decennio, l’unico ente governativo che godesse di un potere reale nella Città Galleggiante era il ministero dei Lavori Pubblici.
E così la Città era diventata il rifugio di tutti quelli che avevano dei problemi in terraferma; artisti, criminali, drogati, contrabbandieri, immigrati illegali e disoccupati cronici. All’interno della vastissima rete di canali, balse e ponti mobili c’era almeno una dozzina di comunità autonome. C’erano i veri e propri bassifondi come in terraferma, luoghi dove era decisamente pericoloso vivere. E c’erano poi delle comunità tranquille e pacifiche, in particolare, al nord, dove lo spazio era più abbondante. Lì c’era denaro, lavoro, e anche un certo scambio commerciale con il mondo esterno. La gente andava e veniva. Era un posto dove si poteva vivere, pensò Oberg. E soprattutto, dove ci si poteva nascondere.
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