Alla fine il servizio di pattuglia era giunto, ma Keller cominciava a credere che le sue domande non avrebbero trovato risposta nemmeno quella volta. Era appunto assorto in un miscuglio di gratitudine e di delusione quando i suoi timori divennero di colpo realtà, e l’imboscata li colse tutti.
Stavano attraversando un campi di manioca verso il margine dell’autostrada contesa, la BR-364. Erano in formazione sparsa. In testa camminava un ragazzo di diciannove anni di nome Hooper. Hooper era appesantito dai sensori e da un dispositivo di localizzazione a elmetto che lo faceva assomigliare a uno scarafaggio, come aveva detto Byron. Hooper avrebbe dovuto dare l’allarme. Purtroppo era distratto. Nel bagliore della prima esplosione, Keller lo vide perdere tempo con i comandi a mano, forse nel tentativo di mettere a fuoco un’immagine sospetta o magari solo per giocare con lo schermo, colorare il cielo di rosso o altre fesserie del genere. Al corso, gli avvenimenti erano stati precisi. Non si doveva giocare. Era la prima regola. La reazione immediata di Keller al momento dell’imboscata fu dunque di irritazione nei confronti di Hooper. Hooper!, pensò. Hooper, pezzo d’idiota!
Lo spostamento d’aria lo buttò a terra.
Nei momenti successivi il tempo perse di valore. La fortuna lo aveva fatto cadere nel cratere di una bomba, grande come il suo corpo. Il riparo gli forniva una protezione appena sufficiente contro la pioggia di pallottole provenienti da una postazione tra gli alberi. Keller rotolò di fianco in tempo per vedere un proiettile colpire Logan, uno Spec/4 di colore. Rimase impietrito per l’orrore. Era come se Logan fosse stato investito da una grandinata di lame di rasoio. Aveva sangue dappertutto. Cadde a terra come un albero segato alla radice, ridotto in brandelli così piccoli da non fare neppure rumore.
Cristo, pensò Keller.
Il suo fucile era schiacciato nel fango sotto di lui. Lo tirò fuori per difendersi in qualche modo, cercando di non cedere al panico, ma non c’era niente di logico a cui sparare, solo un bosco in lontananza, il nastro deserto della strada, l’aria immobile che annunciava il crepuscolo. In quella calma temporanea, Keller udì il co che urlava ordini incoerenti da qualche parte alla sua sinistra. Gli ordini s’interruppero con un grido. Lui strisciò in avanti fino a che riuscì a vedere una parte del campo. Tutti erano a terra, interi o a pezzi. Hooper era a terra. Il co era a terra, e sanguinava. L’addetto alle comunicazioni, con la sua radio, si affannava a chiedere aiuto e copertura aerea. Combattuto tra l’ansia e la riluttanza, Keller si impose di cercare Megan.
I suoi occhi si soffermarono per un attimo su Byron Ostler, l’Angelo del plotone, anche lui a terra, integro e intento a osservare la scena con metodo. Quasi lo invidiò, assorto com’era nei suoi meccanismi di registrazione, lontanissimo dalla paura. Lo Zen degli Angeli. La parte pensante di lui si era chiusa come una noce. Doveva essere dolcissimo.
Tutto questo nello spazio di un battito di ciglia.
E alla fine scorse Meg. Al momento dell’imboscata lei camminava alla sua sinistra, un paio di passi più indietro. Keller dovette sporgersi in fuori per vederla. Quando ci riuscì, rimpianse di averlo fatto.
Meg era stata colpita.
L’orrore lo stordì, come un colpo violento nel centro del cranio. Gli si velò lo sguardo e per un secondo dubitò di ciò che vedeva.
Il proiettile l’aveva colpita alle gambe che ora, dalle ginocchia in giù, erano ridotte a un orrendo mucchio di confetti rossi. Non poteva camminare. Non poteva reggersi. Era bloccata nel campo di manioca, completamente indifesa. Ed era viva.
Faceva dei cenni verso di lui. Gli tendeva le mani. Ray , sembrava dire. Voleva che lui la tirasse nel cratere dove si trovava, o in qualunque altro posto in cui potesse salvarsi. Dove riuscire a rimanere viva fin quando fossero arrivate le squadre di soccorso. Lui sbatté le ciglia, guardandola. Megan tese la mano sanguinante verso di lui, e il suo sguardo divenne implorante e in qualche modo terribile. Lui si trascinò in avanti per raggiungerla. Se qualcuno è in pericolo bisogna aiutarlo, pensò. Era molto semplice.
Ma in quel momento iniziò una seconda grandinata di proiettili e lo spettrale canto funebre dei fucili devastati fu presto seguito dal boato di grappoli di bombe. Keller si irrigidì. Il terrore che si impadronì di lui era una cosa nuova. La paura negli occhi di Meg sembrava esserglisi trasferita dentro. Udì delle urla sovrastare lo strepito delle esplosioni e capì che avrebbe urlato anche lui allo stesso modo. Immaginò il terrore che si liberava nella sua gola in un gemito lungo e straziante, simile a quello di un animale. L’ultimo sussulto di lucidità, prima dell’attacco finale di dolore, prima della morte. Avvertì il sibilo di una granata a tempo che solcava l’aria sopra di lui, e ritirò istintivamente la testa.
Morirò , si disse. C’era una logica fredda e inesorabile in quello che stava succedendo. Se mi alzo per prendere la sua mano, morirò. Era tutto calcolabile: impatto, esplosione, velocità, peso. Dio, pensò, era un grande matematico, se riusciva a fare calcoli così precisi.
Probabilmente, l’indecisione non durò più di un attimo. In seguito Keller si ripeté che aveva avuto l’intenzione di aiutarla, e che era stato trattenuto solo dallo spavento per l’esplosione vicina, che l’esitazione era stata istintiva…
Ma lei morì mentre lui esitava. Un proiettile la trovò e i monofilamenti le scorticarono il corpo all’altezza del diaframma. L’impatto la sollevò, spostandola esattamente come spiegavano le teorie balistiche, prima in alto e poi all’indietro. Keller vide la medaglietta di riconoscimento, ormai staccata dalla catenella, descrivere un arco nell’aria turbinosa. Lei ricadde senza vita nell’erba alta.
Il movimento fu netto e grave. Significava, pensò Keller, che lei era entrata in quel momento nella matematica delle cose inanimate.
Lui capiva la morte. Non era una novità, che la gente morisse. Specialmente in combattimento. Rientrava nella logica delle cose. Era spiacevole e, purtroppo, inevitabile.
Ma lui l’aveva amata.
Certo, anche le persone che si amano possono morire. In questo senso, la comprensione della morte gli era giunta molto presto. Aveva visto sua madre stesa in una bara quando aveva solo sette anni, e si era reso conto che, sebbene sembrasse solo immersa in un sonno profondo e doloroso, non si sarebbe mai più svegliata. Il respiro non sarebbe più entrato e uscito dalle sue labbra, le palpebre non si sarebbero sollevate. L’essenza della morte era appunto questa.
Quando era morto anche suo padre, alcuni anni più tardi, Keller era abbastanza grande da cercarsi un lavoro per continuare a vivere nell’appartamento sopra l’officina. Lasciò meticolosamente tutto al suo posto, aggrappandosi a una parvenza di normalità. Anche quello era un modo di chiudere gli occhi, eliminando il dolore. Prese l’abitudine molto in fretta.
E così, dopo la morte di Meg e la propria silenziosa complicità in quanto era successo, giunse a capire meglio Byron, l’Angelo, l’Occhio. — Hai visto tutto — lo accusò durante una sbronza, qualche giorno più tardi.
Ma Byron scrollò la testa. — È la macchina a vedere, Ray. Io non vedo niente.
Mio Dio, pensò Keller. Dev’essere il paradiso.
Qualche tempo dopo cercò di avere accesso alle registrazioni, per valutare la propria colpa e vedere le cose, per quanto possibile, con un minimo di obiettività. Inoltrò due richieste scritte e formali, ma il permesso gli venne negato. Le registrazioni erano passate nel limbo degli archivi di sicurezza, decisamente fuori dalla portata dei comuni mortali come lui.
Si offrì volontario per l’addestramento al compito di Angelo. Imparò il wu-nien. La sua fu una scelta onesta, e lui la prese con molta serietà. Alla fine fu assegnato a una nave di ricognizione che prestava servizio nelle acque tranquille del Rio Negro. Non ebbe più occasione di vedere altri combattimenti.
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