C. Cherryh - Stirpe di alieno

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Stirpe di alieno: краткое содержание, описание и аннотация

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Lo avevano chiamato Thorn, e ancora neonato lo avevano affidato al più grande giudice-guerriero di quel mondo, Duun, perché lo allevasse come un membro della loro razza. Ma ben presto Thorn si rende conto di essere diverso; la sua pelle è chiara e priva di morbida pelliccia argentea, le sue mani mancano di artigli, e in tutto quel mondo non esiste un’altra creatura simile a lui. Quando poi gli attentati alla sua vita si moltiplicano, fino a condurre l’intero pianeta a una strenua guerra civile, Thorn capisce che deve cercare nello spazio la risposta all’enigma della sua origine, ben sapendo che da lui può dipendere il futuro di due lontane civiltà.
Nominato per i premi Hugo e Locus in 1986.

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— Sei stata là?

— Ragazzo, ho vissuto nove mesi sullo Sgoth, e un magistrato del villaggio era mio amante. Aveva un anello infilato qui, sul fianco del labbro, e gli dava un’aria strana quando sorrideva, te lo dico io. Era stato sposato sei volte, e aveva una cicatrice nel naso, dove una delle sue mogli gli aveva infilato un bastone; ma era matta, e la figlia lo era ancora di più. Si era messa in testa di vendere la terra di sua madre, senza possederla… voleva vendere la sua prospettiva di eredità all’uomo con cui viveva. Col denaro ricavato se ne sarebbe andata lungo il fiume a cercarsi un marito con una drogheria; non chiedermi perché, ma credo che il cibo fosse l’unica cosa a cui riusciva a pensare… Pesava infatti circa cento chili. Bene, il magistrato, il mio amante, alla fine le diede i soldi per andarsene, e quel matto con cui lei viveva andò a cercarlo con un’ascia…

— Per gli dei!

— Proprio così. E rincorse il magistrato in giro per l’ufficio e sulla strada finché qualcuno non gli sparò. Si diceva che la donna gli desse da mangiare la carne di animali malati e che, in questo modo, il parassita del bestiame l’avesse infettato; ma il mio amante magistrato diceva che chiunque sposava una donna come quella, era matto già da prima.

— Osserva lo schermo. È una simulazione. Questo è il quadro degli strumenti: c’è l’indicatore del carburante, dell’altezza, la bussola… ricordi il viaggio in città, vero?

— Certo che ricordo.

— Bene, questo non è un elicottero. È un aeroplano. Devi usare la cloche e i pulsanti. Ti faccio vedere. Questa è la pista. È un aereo di vecchio tipo, ma cominceremo con questo.

— Sei capace a pilotare?

— Oh, sì, una volta volavo. Adesso non ci vedo più tanto bene. Volo solo come passeggera.

— Passeggera?

— Caro ragazzo, gli aerei vanno e vengono per il mondo in continuazione; come credi che viaggi la gente?

— Per ferrovia.

— Oh, be’, quella serve quasi solo per le merci, oggi. Proviamo di nuovo a decollare; ho paura che siamo appena precipitati.

Qualche volta il dolore cessava. Thorn si svegliò una mattina e si rese conto che l’asprezza era passata; era giunto a una condizione di rimpianto, e non doveva faticare molto per mantenere l’autocontrollo; e mentre faceva colazione con Duun, un’altra mattina, provò un dolore diverso: perché lui e Duun avevano ormai poco da dirsi, fatta eccezione per qualche considerazione di ordine domestico, e per le parole scambiate in palestra. Non c’erano racconti nella sua vita se non quelli di Sagot, non c’erano suoni nella casa. Solo talvolta, nelle lunghe serate, lui o Duun suonavano il dkin, ma con scarsa passione: Duun senza scopo, oppure in lunghe e complesse composizioni che davano sui nervi a Thorn; Thorn suonava tristi canzoni hatani, oppure le canzonette più allegre e triviali che aveva imparato nell’infanzia, come accuse scagliate contro Duun. E Duun sedeva e ascoltava, oppure si ritirava nel suo studio in cerca di tranquillità e (qualche volta, perché il fianco gli faceva ancora male) prendeva un sedativo e chiudeva la porta della sua stanza.

Thorn era il pupillo di Sagot. Duun viveva con lui e basta; preparava da mangiare quando era il suo turno, e si occupava dell’addestramento ginnico di Thorn. (Da un po’ di tempo, Duun sentiva male a respirare; ma anche questo era poco importante.)

(Mi ha tenuto stretto tutta la notte, quella notte. Deve avergli fatto male. Riusciva a stento a muoversi quando si è alzato. Non ha emesso un solo lamento.)

(Guarirà?) In una parte di lui, la vista di Duun ridotto a entrare in palestra, dargli istruzioni e uscirne, gli dava soddisfazione.

(Ma è troppo tranquillo. Non mi parla. Cosa aspetta?)

(O dei, vorrei che mi gridasse, si accigliasse, o almeno mi guardasse negli occhi. Ha le spalle curve. Si muove come Sagot. Non sarei mai riuscito a colpirlo, quella volta, se in quel passaggio non si fosse sbilanciato sulla parte che gli faceva male. Se fosse stato più giovane e non fosse stato ferito, dei, sarebbe stato impossibile batterlo. E io avrei avuto paura a misurarmi con lui.)

(O Duun, guardami! )

(Perché deve importarmi se mi ha portato via Betan, Elanhen, Sphitti, perfino Cloen, se mi ha portato via tutto quello che mi sta a cuore? Ha fatto venire Sagot, e un giorno manderà via anche lei. Sempre così, con tutti.)

(Mi spiava. Probabilmente è collegato con il computer della scuola; so che può farlo: basta inserire i codici, siamo nello stesso edificio. Sapeva tutto, ha letto tutto quello che Betan e io ci siamo scambiati, probabilmente glielo hanno riferito le guardie.)

(O Duun, non mi piace questo silenzio. Non mi piace che mi guardi così, mi fa stare male.)

Un giorno, di ritorno da Sagot, trovò Duun nella palestra. Lo stava aspettando. Si tolse tutto tranne il piccolo kilt e attese istruzioni. Duun venne invece verso di lui muovendo il braccio sinistro, avanti e indietro.

— Duun, stai attento.

— Thorn, non ho bisogno che tu me lo dica. Ricordati solo di quello che ti ho detto: niente colpi duri. Solo un po’ di esercizio.

Duun lo stese a terra. Gli ci volle un bel po’, e fu la sua abilità che alla fine sbilanciò Thorn e portò il piede di Duun contro la sua schiena.

— Sono morto — disse Thorn, e si sedette sulla sabbia. Duun lo imitò, più lentamente, respirando affannosamente e leccandosi i denti. Thorn ansimò e si appoggiò alle ginocchia, guardandolo. Improvvisamente, si mise a sorridere: essere battuto da Duun era nella natura delle cose e lo faceva sentire meno solo.

Duun sorrise a sua volta. Nessuna parola. E le cose andarono subito meglio. Quella sera Duun suonò vecchi pezzi familiari, uno dopo l’altro, e la musica li riportò indietro, ai bei tempi; non cantarono le canzoni tristi, ma quelle giocose, piene del sottile e crudele umorismo hatani.

Thorn si addormentò, e si svegliò all’incirca a metà del “buio”, con le stelle che davano le vertigini attorno al suo letto, e l’aria che sapeva di falsi venti freddi, come se venissero da nevi invernali; tutto era silenzioso, e Thorn aveva una vaga sensazione di terrore, a cui non riusciva a dare un nome.

(Duun è stato qui. È stato qui poco fa.) Forse era un odore impercettibile disperso dal condizionatore. La porta era chiusa.

Gli occhi di Thorn scrutarono il buio della stanza, fermandosi sui contorni: conosceva l’abilità di Duun. (È ancora qui? Aspetta che mi muova?) Il cuore di Thorn batteva veloce e gli pulsavano le vene del collo. (È assurdo. Come può essere entrato? La porta fa rumore; non potevo dormire così profondamente.)

(Non potevo?)

Il suo cuore batteva all’impazzata. (Non lo farebbe. Non può. Non dopo Betan. Sa che sono furente. Lo odio. Odio che mi faccia questo.)

Si alzò dal letto. (Mai fidarsi di lui. Mai darlo per scontato…) Ma non c’era niente nella stanza, solo le false stelle, nel loro lento movimento vertiginoso.

Thorn si sedette sul bordo del letto. Il cuore gli martellava ancora nel torace.

(Com’è il mondo? Pieno di gente come Sagot? E come Duun? Cos’ha in mente? Per cosa sono stato fatto? Importa davvero tanto al governo se vivo o muoio? Tanto da chiamare un hatani per risolvere il mio problema? Potrebbe ucciderli. Uccidermi. Mi dà una possibilità, dice… una possibilità contro cosa? )

(Un hatani stabilisce le mosse dell’avversario. Un hatani giudica. Un hatani vaga nel mondo mettendo a posto le cose. Un hatani può lasciarti un sasso nel letto, o nel bicchiere; può passare attraverso una porta chiusa, e inseguirti nel buio. È un cacciatore… non la preda. Di chiunque voglia. Cos’altro è?)

(Ogni cosa che Duun fa ha uno scopo. E Sagot è sua amica. Forse… forse anche Betan lo era. No. Sì. O dei, forse è tutto programmato? Possibile che Betan avesse scelto uno come me? O era curiosa? Curiosa…)

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