— Non ha un bel colore.
(Ho freddo, stupido.)
Qualcosa gli punse il braccio. Un dolore sopportabile. Dopo un attimo sentì il cuore battere forte, come negli incubi.
(Andate via. Lasciatemi solo. Non toccatemi.)
— Tenetelo fermo, non fatelo muovere.
Batté le palpebre. I medici gli tenevano stretti gli arti facendogli male. Alzò la testa. — Lasciatemi andare. Sono sveglio. Voglio sedermi.
Loro assunsero un’aria sciocca, lasciando cadere le orecchie. Dopo averci pensato un po’, lo lasciarono andare; uno che stava al suo fianco gli mise una mano sotto la schiena, e un altro lo aiutò ad alzarsi.
— Avete finito? — chiese Thorn.
— Abbiamo finito — rispose uno. Raramente gli parlavano. — Ti metteremo un po’ a letto.
— Io torno a casa. — Thorn scese di scatto dal lettino. I piedi erano insensibili, ma le ginocchia lo ressero. Il medico allungò una mano, e Thorn lo fermò sollevando la sua: un gesto calmo, d’avvertimento. Il medico colse l’avvertimento e si ritrasse.
— Sagot — disse qualcuno. — Sagot, venite, presto.
Thorn aspettò allora che Sagot entrasse. Si ricordò che era nudo. — Voglio i miei vestiti. — Un medico gli diede il kilt. Thorn lo prese e lo indossò faticosamente: aveva le dita intorpidite e le gambe malferme.
Una porta si aprì. Alzò gli occhi su Sagot. — Sagot — disse. Cercò di essere cortese. Duun gli avrebbe fatto del male se fosse stato maleducato coi medici, e Thorn era disperato. Parlò con voce molto calma e gentile, senza agitarsi. — Sagot, dicono che dovrei andare a letto qui, ma preferirei andare nel mio a dormire. Per favore, portami a casa, Sagot.
Lei lo guardò serrando la sua bocca già sottile. Per un po’ non disse niente. — Va bene — acconsentì alla fine. — Chiamate la guardia e Duun; ditegli che stiamo arrivando. — Sagot gli venne vicino e strinse tutte e due le mani intorno alle sue. Insieme, Thorn e Sagot uscirono da quella stanza.
— Aspettiamo qui un momento — disse Sagot nell’altra stanza. E rimase lì con lui, tenendogli il braccio. Dopo un momento la porta si aprì e apparve la guardia che lo accompagnava sempre. Si chiamava Ogot. Non parlava molto, ma era simaptico; era un uomo di Duun, e se Ogot l’aveva portato in quel posto senza dirgli niente, forse era quasi all’oscuro di tutto. Ogot sembrò preoccupato vedendolo, e Thorn provò vergogna per la sua debolezza.
— Va tutto bene — disse Sagot — gli hanno solo dato dei sedativi; cammineremo adagio. Il ragazzo vuole andare a casa subito. Vieni, Thorn.
Non era nel suo letto; era sdraiato sui cuscini del rialzo che toccava la parete della sala. Le finestre mostravano rami agitati dal vento e vetri bagnati di pioggia. Dall’audio venivano rumori di tuoni e d’acqua. E c’erano bagliori di lampi. Il condizionatore soffiava aria umida e fresca e l’odore dei boschi sotto la pioggia. Disteso sui cuscini, Thorn se ne stava lì, nella stanza che conosceva (ma le pareti cambiavano sempre) e sbatteva le palpebre. Conosceva quegli alberi, quello piegato, il ramo contorto, le rocce, la via per arrampicarsi…
— Eccomi qui. — Duun si sedette sul rialzo, prese la tazza e gli versò il tè. — C’è dentro dell’aghos, non sputarlo; hai bisogno di calorie.
Thorn prese la tazza e sorseggiò il tè. Aveva un sapore dolciastro, ma era sempre meglio del sapore della sua bocca. Guardò Duun: teneva il collo rigido, perché aveva dormito nella posizione sbagliata.
— Bene — disse Duun. — Ti ho spostato qui.
— Mi hai portato? — Ricordava il letto; ricordava che Duun l’aveva svegliato una volta per farlo bere.
— Ce la faccio ancora.
— Duun, mi hanno…
— Sss.
Thorn rimase in silenzio. Era stato per dire qualcosa che l’avrebbe imbarazzato. (Hai alcune necessità impellenti, Thorn.) Si sentiva svuotato, in pace, dopo la tempesta. La falsa pioggia batteva sui vetri. — È Sheon, vero?
— Ho tenuto da parte questa scena. L’avevo fatta preparare un anno fa. Pensavo di usarla, un giorno o l’altro.
(Un giorno speciale. Oggi? È un dono? Per compensarmi di altre cose?)
— Ancora tè? Forza, devi svegliarti. Faremo un po’ di palestra, oggi pomeriggio.
— Vuoi uccidermi.
— Ce la prenderemo con calma, pesciolino. — La faccia di Duun lo guardava, mezza sana, mezza ferita, con quel sorriso eternamente canzonatorio. — Ce la farai.
(È contento di me adesso? Era un esame che ho superato?) — Duun, mi hanno…
Duun sollevò la destra con un dito alzato. Silenzio, voleva dire. (Non voglio che tu parli).
— Loro…
— Non è successo.
— Maledizione, è…
— Non è successo. Silenzio.
Thorn sentì il cuore battergli più forte. Fissò allora la faccia di Duun, con le sue cicatrici e gli occhi immobili. Il cuore gli batteva contro il petto. (Cosa mi stai facendo? Cosa mi stai facendo, Duun-hatani?)
— Sei lento, Thorn. Lento. Velocità!
Thorn ci provò. Girò su se stesso, perse l’equilibrio, saltò indietro per salvarsi, mentre il coltello con la punta coperta gli passava sulla pancia: sentì il tocco. Girò ancora e sollevò il pugnale, pronto a difendersi. Duun chiamò tempo, e s’inginocchiò sul pavimento. Thorn si sedette e si asciugò la faccia.
— Sono fuori allenamento. Mi riprenderò.
— Continuerai a far pratica — disse Duun.
— Come… “continuerai”? — (Qualcosa è cambiato? Cosa non va?) Continuerai sembrava qualcosa di definitivo.
— Tre mattine su cinque studierai. Un giorno sì e uno no andrai in quella stanza. È un altro tipo di studio.
— Duun…
— … di cui non parleremo.
— Duun, non posso!
— Non puoi?
Thorn ebbe un sobbalzo. Si strinse le ginocchia con le braccia. — Tu sai cos’è? L’hai mai provato?
— Non ne parleremo. Un giorno sì e uno no dovrai affrontarlo. Sai che dovrai affrontarlo; ci andrai da solo e sarai educato con i medici. Non te lo ripeterò un’altra volta. Se davvero ti farà soffrire, te lo faranno una volta ogni cinque giorni. Ma questa è una cosa che i medici decideranno per ragioni mediche, non per i tuoi capricci.
— Per sempre? Per il resto della mia vita?
Duun esitò. Duun raramente esitava nel rispondere, anche se qualche volta si fermava a pensare. Questa volta, la pausa durò un minuto buono, e Duun aveva la fronte aggrottata. — È una prova, pesciolino. Non devi fallire, capito? Non ti dirò quanto tempo durerà. Non dovrai parlarne mai, qui dentro. La prossima volta dormirai nella sezione medica. Quando potrai tornare a casa con le tue gambe, ci verrai; potrai farlo in qualsiasi momento, e dirai: Ciao Duun, sono tornato a casa, cosa facciamo?… quello che fai ogni giorno. Sagot è stata debole e ti ha lasciato fare ciò che volevi. Io avrei dovuto rimandarti subito indietro, invece di coccolarti. La vita non ti coccola.
— Neanche i medici, Duun. Fa male , è… non so come comportarmi, Duun, aiutami, per amore degli dei, dimmi come devo fare!
— Accettalo. Con dignità. Accoglilo. Con tutta la forza e l’intelligenza che possiedi.
— Ho fallito oggi?
— No — rispose Duun. — No, sei stato meravigliosamente bravo. Puoi essere orgoglioso di te stesso. Hai reso felice un sacco di gente, gente che non hai mai incontrato. Ma non ne parleremo più; tornerai a casa e non dovrai parlarne; faremo tutto quello che facciamo sempre. Penso che ne sarai felice.
— E tu non mi sgriderai.
Per la seconda volta Duun parve colto alla sprovvista, e questo era un fatto ancora più raro. — No, pesciolino. Non ti sgriderò.
— Buon giorno — disse Sagot.
Thorn attraversò la stanza fino a dove sedeva Sagot, come aveva fatto la prima volta che l’aveva vista.
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