C. Cherryh - Stirpe di alieno

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Stirpe di alieno: краткое содержание, описание и аннотация

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Lo avevano chiamato Thorn, e ancora neonato lo avevano affidato al più grande giudice-guerriero di quel mondo, Duun, perché lo allevasse come un membro della loro razza. Ma ben presto Thorn si rende conto di essere diverso; la sua pelle è chiara e priva di morbida pelliccia argentea, le sue mani mancano di artigli, e in tutto quel mondo non esiste un’altra creatura simile a lui. Quando poi gli attentati alla sua vita si moltiplicano, fino a condurre l’intero pianeta a una strenua guerra civile, Thorn capisce che deve cercare nello spazio la risposta all’enigma della sua origine, ben sapendo che da lui può dipendere il futuro di due lontane civiltà.
Nominato per i premi Hugo e Locus in 1986.

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Duun si allontanò, voltando le spalle a quello sguardo. Forse Thorn avvertì la sua ansia. Era acuta, adesso.

(“Dobbiamo procedere”, aveva insistito Ellud. “Duun, non hai fatto che rimandare; in un primo tempo c’erano i nastri da imparare; poi la faccenda di Betan che l’ha sconvolto; adesso tiri fuori che ci sono ancora delle cose da insegnargli. Duun, non abbiamo più scuse”).

Duun raccolse la custodia del wer e si voltò a guardare Thorn che stava facendo la stessa cosa. Tutto un guizzare di muscoli; sì, perché Thorn era in gran forma quella mattina; e Duun voleva ricordarlo così.

— Ecco le parole: so che puoi ricordarle. Non hai bisogno di molto studio. Nave. Sole. Mano. Attenzione. Equivalgono a queste sequenze sonore. — Sagot mise in funzione il registratore. Era una faccenda complicata, e Thorn si concentrò, per non disperdere la sua attenzione su ciò che lo circondava. Quella mattina la guardia non l’aveva condotto nella solita stanza, ma due porte più avanti, in un posto con i pavimenti lisci e nudi che sapevano di medici. La stanza era abbastanza grande, con due grandi rialzi e una serie di armadietti; con finestre che mostravano falsi deserti e che servivano a rendere il luogo ancora più nudo e meno confortevole. Sagot lo aspettava, seduta alla scrivania, a gambe incrociate e con una tastiera in grembo; vicino alle ginocchia aveva un’altra tastiera e un monitor. — Siediti — aveva detto, e la guardia era uscita chiudendo la porta.

— “Io. Egli Andare.”

Thorn aveva subito pensato al simulatore , quando la guardia l’aveva portato alla nuova porta. Gli piaceva quella rapida interazione col computer, la simulazione del volo e la terra che scivolava sotto ali immaginarie. Dei, c’era uno schermo in una stanza che faceva sembrare tutto vero. Si mise a sedere davanti a una macchina che aveva dei comandi molto simili a quelli dell’elicottero. L’intera macchina si muoveva sotto di lui e si inclinava insieme agli schermi; tanto che la prima volta aveva dovuto stringere i denti per non urlare, quando aveva perso il controllo e la stanza si era messa a girare su se stessa. Adesso se la cavava meglio.

(“Medici?” aveva chiesto subito a Sagot, allarmato. “Siediti”, aveva detto lei. “Oggi facciamo esercizi di pronuncia.”)

Stop. Uomo. Radio. Stop.

— È un linguaggio?

— Ripeti, ragazzo.

(Qualcosa non va. La bocca di Sagot ha una piega dura. Ho fatto una domanda sbagliata? È infastidita per questo posto?)

— Concentrati.

Thorn si mise al lavoro. Associò un significato ai suoni. Sagot gli lasciò ascoltare i nastri più volte; lui li odiava. Poi borbottò i suoni, con risentimento. Non fu certo una bella giornata. Duun era stato scontroso a colazione; scontroso alla sua maniera, cioè silenzioso e pensieroso, nascondendo tutto quello che aveva dentro e mostrandone solo la superficie, come uno stagno ghiacciato. Sagot diede a Thorn ordini precisi, poi uscì. Lo lasciò solo nella stanza, ma ogni tanto tornava a controllare, da una porta interna.

(Si sono parlati. Duun è arrabbiato con me e l’ha detto a Sagot. Non ho fatto niente per fare arrabbiare Sagot.)

(- Sono stato uno stupido nel fare le mosse, ieri. Non riesco a fare a meno di spostarmi a destra, e faccio peggio quando Duun mi sgrida; preferirei che mi colpisse, non m’importa se mi colpisce, me lo merito, quando scopro il fianco in quella maniera. È come se fossi arrivato a un punto oltre il quale non posso più migliorare. Duun lo sa. Non sono abbastanza bravo per essere hatani, mi manca qualcosa. Si è dato tanto da fare per insegnarmi, e io continuo a spostarmi a destra come uno sciocco. E lui deve continuare a sgridarmi. Dovrebbe colpirmi col coltello, dopo, forse, me ne ricorderei.)

C’era una cicatrice sul suo braccio, e una su quello di Duun.

(Lo ricorderò sempre.)

— Ragazzo.

Il registratore si spense. Era stata Sagot. Thorn sbatté le palpebre. Sagot gli aveva portato una pillola e una tazzina d’acqua. (Dei, sono i medici, allora. Cosa non va? Vogliono solo darmi un’occhiata?)

— Sagot, non voglio quella roba. Sto bene.

Lei non tirò indietro la mano. Non c’era scelta, allora. Prese la pillola dal palmo di Sagot, nero e rugoso, e se la mise in bocca. Non aveva bisogno dell’acqua per inghiottirla, ma avvertì un immediato benessere allo stomaco che minacciava di rivoltarsi. (È per questo che Sagot si comporta in maniera strana? C’è davvero qualcosa che non va in me? Duun lo pensa?)

— Voglio che tu venga di là con me — disse Sagot. — Sì, sono i medici. Dovrai stenderti per un po’, e voglio che tu lo faccia senza storie.

(Odori di paura, Sagot. E anch’io, immagino. Dei, cosa sta succedendo?)

Si alzò. Era più alto di Sagot. Lei gli prese la mano. (Sono hatani, Sagot, non dovresti…) Ma non diceva mai di no a Sagot. Lei lo condusse fino alla porta, sempre per mano, e lo fece entrare in una piccola stanza che non lasciava dubbi: era piccola, piena di macchinari e strumenti medici, con un tavolo. Sagot non gli lasciò la mano. Evidentemente non aveva intenzione di parlare della faccenda. (Ha paura. Come dovrei sentirmi io? ) Ma rimase lì fermo, mentre dei medici entravano e gli dicevano di togliersi il kilt e di stendersi.

— Non preoccuparti per me — disse a Sagot. Non voleva spogliarsi mentre lei era lì, non perché pensasse di sconvolgerla (ho quattordici pro-nipoti, ragazzo) ma proprio perché lei non lo sarebbe stata; l’avrebbe guardato come un bambino, e Thorn-bambino era già troppo nudo. Sagot invece rimase. Thorn le voltò le spalle, si slacciò il kilt e salì sul tavolo come gli avevano detto i medici. La testa gli girava e si sentiva le membra lontane dal corpo. Scivolò allora in un’immensa calma, che di per sé lo allarmò.

(Era una droga quella che Sagot mi ha dato. Duun lo sa? Sa dove sono, quello che stanno facendo, l’ha ordinato lui?)

Gli applicarono degli elettrodi sul corpo. Se lo sentiva lontano, molto lontano. Parlavano in mormoni, oppure era successo qualcosa al suo udito. Regolarono uno schermo sulla sua testa. Qualcosa di morbido si appoggiò sul suo corpo nudo, e si rese vagamente conto che gli avevano messo addosso un lenzuolo. Gliene fu grato. (Fa freddo qui. Certe volte non si rendono conto di quanto senta freddo; loro hanno la pelliccia, io no. E adesso sto sudando… ) Qualcosa gli strinse le gambe, poi il petto. — Parlategli , per amore degli dei! Non è mica un pezzo di legno.

— Sagot-mingi, dobbiamo chiedervi di fare silenzio; con rispetto, mingi Sagot.

Qualcosa si appoggiò pesantemente sulle spalle di Thorn e lo scosse. — Tieni gli occhi aperti. Guarda in alto.

Thorn obbedì alla voce. E risentì i suoni dei suoi nastri, più volte.

— Batti le palpebre. Bene, così. Puoi batterle, se vuoi.

— Sta seguendo, vero?

La voce svanì. Sentì un’altra voce, che gli parlava. Aveva delle immagini davanti a sé, si trovava in un simulatore; altre voci, altre immagini e gente come lui che si muoveva nel buio; e poi facce che gli dicevano parole confuse, macchine e ancora macchine.

Cercò di liberarsene.

Degli occhi lo fissavano, simili a specchi. Altre macchine che ruotavano nel buio e braccia che si muovevano…

Lottò. Fuggì, e lottò.

— Questa è la tua eredità — gli disse una voce dal buio. — Accettala, Haras-hatani. Questa è la tua eredità. Accetta quello che senti e vedi. Smettila di opporti. Accettala. Questa è la tua eredità.

Caos d’immagini.

— Ascolta i suoni. Impara, Haras-hatani. Ricorda queste cose.

— Svegliati.

Disteso sul tavolo e coperto dal lenzuolo, Thorn era tutto in un bagno di sudore. Avrebbe voluto soltanto rimanersene lì, tranquillo. Gli occhi gli facevano male come se ci fosse dentro del sudore; e forse era così. Qualcuno gli asciugò la faccia, e il panno gli diede delle sensazioni neutre: umido e ruvido, né freddo né caldo. Qualcuno gli sollevò un peso dalle gambe e dal petto. — Sei sicuro di avere fatto bene? Non è ancora sveglio. — Lo era, ma preferì tenere il segreto per sé, e fissare l’acciaio delle macchine, ignorando le facce e le mani, e l’improvvisa nudità del suo corpo mentre gli toglievano gli elettrodi, con piccoli strattoni che avrebbe dovuto sentire, ma non sentiva.

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