(In che anno siamo?)
(Non avrei dovuto ridere. Sheon non è proprio la capitale del mondo, vero?)
Thorn entrò nell’anticamera, bianca di sabbia e di nude pareti; sul rialzo c’era un vaso solennemente ricolmo di ramoscelli d’albero. La sabbia mostrava i segni del rastrello, passato la sera prima e una singola fila d’impronte di piedi conduceva nella grande sala dove tutte le finestre erano bianche e nude.
La seguì e si fermò sulla soglia, di fronte ai rialzi scrivania, deserti. Le impronte conducevano alla scrivania più lontana, nella sala bianca, quella che era stata di Elanhen.
Uno sconosciuto sedeva lì, con le gambe incrociate e le mani sulle cosce. Il naso, la bocca e gli occhi erano bordati di bianco che sfumava nel grigio, tranne che sulla punta delle orecchie. La cresta era di un bianco candido. Le braccia magre. Thorn lo fissò pensando che doveva essere ammalato.
— Avvicinati. — Era una voce sottile, giusta per quel corpo. Thorn si avvicinò e rimase a guardare lo sconosciuto. — Tu sei Haras. Thorn.
(Dei, non lo sa?) Il riso era lì, pronto a sgorgare come sangue da una ferita, ma non poteva ridere in quel grande silenzio sterile. Era un uomo? D’improvviso Thorn sospettò di no, per delle ragioni che non avrebbe saputo ben definire. — Dov’è Elanhen? Dove sono Sphitti e Cloen?
— Mi chiamo Sagot. Perché mi fissi? C’è qualcosa in me che ti turba?
— Scusami. Dove sono gli altri?
— Sono andati via. Siediti. Siediti, Thorn.
Non sapeva come dire di no a una voce così gentile. Duun non gli aveva insegnato come dire no all’autorità. L’aveva imparato da solo; e il mondo era troppo pericoloso per opporsi avventatamente all’autorità. Si sedette sull’orlo del rialzo più vicino, con i piedi penzoloni.
— Mi chiamo Sagot. Non hai mai visto nessun vecchio fino ad ora, vero?
— No, Sagot. — Dire qualsiasi cosa gli sembrava difficile. (La vecchiaia. Dei, è così fragile… Dev’essere una donna, senz’altro. Diventerò anch’io così? E mi conosce… è un’amica di Duun.)
— D’ora in poi t’insegnerò io.
— E a loro no?
— No. Solo a te. Devo chiamarti Haras o Thorn? Cosa preferisci?
— Uno qualsiasi, Sagot. È lo stesso. — (Come devo chiamarla? È hatani? O un medico? Oh, Duun, fammi uscire di qui. Voglio i miei compagni. Perfino Cloen, se non Betan, almeno Sphitti! O Elanhen, o qualcuno che conosco!)
— Ho avuto due figli. Entrambi maschi. Sono cresciuti e hanno dei figli, e i loro figli hanno a loro volta dei figli, già grandi. È passato molto tempo da quando ho insegnato a un ragazzo. Mi è sempre piaciuto.
(O dei.) La gentilezza trovò una carne morbida e vi scivolò dentro come una lama; liberò le lacrime con tanta facilità che non ci fu modo di nasconderle. Thorn si coprì la faccia con le mani, svergognando se stesso e Duun, mentre il petto gli faceva male come se qualcosa si fosse spezzato dentro. Quando ebbe smesso di singhiozzare e di tremare, si fregò la faccia e il naso con le mani umide, e alzò gli occhi. L’educazione lo voleva.
— Sei un bravo giovane — disse Sagot. — Mi piaci.
— Menti, menti, è stato Duun a mandarti…
— È vero. Ma sei un bravo giovane lo stesso. Lo vedo. Posso vedere più di quanto immagini; ho educato troppi ragazzi per non averne trovato qualcuno che piangeva e mi confidava i suoi guai, ogni tanto; e anche ragazze… Ti dirò, ho conosciuto anche persone non più tanto giovani, che piangevano e tremavano per dispiaceri da loro considerati grandi. Simili tormenti sono come grandi bufere. Ti fanno bene. Investono le foreste e spezzano un po’ di rami. Ma segnalano i cambiamenti. Portano la nuova stagione. Rinnovano le cose. E questo è bene. I tuoi occhi sono luminosi… molto belli, anche se differenti. Sono azzurri, vero, quando non piangi?
— Lasciami in pace!
— È sorprendente quanto i giovani siano uguali; prima piangono, poi gridano. Lo so che fa male. Mi sono morti due mariti. So qualcosa del dolore.
— Sei hatani?
Lei sorrise. — Dei, no. Ma conosco Duun. Sai, un hatani sa fare un sacco di cose, ma quando si tratta di avere a che fare con gli altri… be’: la ragione non risolve tutto. “Prenditi cura di lui”, mi ha detto. “Sagot, parla con lui, insegnagli.” “E perché dovrei farlo?” ho detto io. “Ho il mio lavoro, ho delle cose da fare, ho quattordici pro-nipoti. Non ho bisogno di un altro ragazzo.” Ma poi ho pensato: è passato tanto tempo. Sono tutti cresciuti. Ho centocinquantanove anni, ragazzo mio; e ho viaggiato per tutto il mondo, ho seguito il corso dei fiumi, sono stata ai due poli, ho scritto dei libri… alcuni dei libri che stai studiando, tra l’altro; ho avuto nove mariti, amanti che ho dimenticato e altri che non ho dimenticato; ho medicato giovani ginocchia, aggiustato ossa, messo al mondo bambini, e visto abbastanza di questo mondo da non essere sconvolta da niente. Questa è la verità.
— Forse è per questo che Duun ti ha mandato da me. - Con amarezza. Fra una chiacchiera e l’altra, il dolore che sentiva al petto, grazie a Sagot, era cessato, e lui non sentiva più il desiderio di scappare. Rimase seduto con i piedi penzoloni, le mani in grembo, e le lacrime che si asciugavano sulla faccia nuda. (Ma la pelle di Betan era come seta e aveva lo stesso sapore del profumo che emanava…)
— Credo che tu non pensi abbastanza a te stesso — disse Sagot. — Va bene essere hatani, ma non sei solo quello : come non sei soltanto un paio di occhi o un paio di mani o il sesso fra le gambe. — (Thorn arrossì). — Oh, lo so, lo so, ragazzo, l’hai scoperto solo adesso, e per un po’ sarà la cosa più importante per te; ma anche questo passerà, diventerà meno importante man mano che diventerai più cose e avrai più capacità, più pensieri; ogni cosa cambia e si trasforma, fino a quando il mondo diventa così grande e le cose che sei così complicate, che non riesci più a contenerle. Tu non sei solo Thorn, nato in un laboratorio, in fondo a questo corridoio; sei Thorn l’hatani, Thorn il mio studente, Thorn che andrà in giro, farà delle cose e sarà delle cose che non hai mai pensato, e io neppure e troverai delle risposte alle tue domande, e domande ancora senza risposta; di questo è fatta la vita, dopo tutto. Perciò piangi pure se devi farlo, e se vuoi venire da me ogni giorno a sfogarti, perché senti che ti fa bene, vieni pure. Ma quando avrai finito e sarai pronto, ho molte cose da darti. È un dare , sai, una specie di dono. Quando avrai vissuto tanti anni come me, vorrai sicuramente lasciare qualche cosa nel mondo. Questo è il mio insegnamento. Ed è quanto sto facendo.
Ritornò a sopraffarlo il singhiozzo, inaspettato, come un respiro improvviso. Ma gli fece meno male. Thorn si pulì la faccia con la mano, in un rapido gesto di disgusto. Si spostò più indietro sul rialzo e tirò su i piedi. Non c’era scelta. Sagot non gliene lasciava nessuna.
— Ti ascolto, Sagot. — (O dei, cos’ha da insegnarmi?) Sagot era piena di segreti e incuteva paura, come Duun. Difficile da affrontare, al pari di Duun, e altrettanto implacabile. — Sei sicura di non essere hatani?
Sagot rise gentilmente, con la sua fragile voce. — Lo prendo come un complimento. Cosa ti piace di più studiare?
— La fisica.
— La fisica, allora. Dimmi quello che conosci. Così saprò da dove cominciare.
— Se un oggetto viaggiasse alla velocità della luce, e un uomo viaggiasse su di esso fino alla stella più vicina… qual è questa stella?
— Goth.
— E dista…?
— Cinque anni luce.
— Cinque virgola uno. Ci vuole precisione, in questo caso. Supponiamo che questo uomo abbia quarant’anni, e che partendo, lasci sulla terra una sorella…
— C’è un tipo di parassita che infesta il cervello del bestiame, sul fiume Sgoht. Ricordo che una volta ho visto un…
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