Mon. Mon. Mon. Lo odiava.
La città gli si chiuse intorno, imprigionandolo. Ma era colpa sua. Tutta colpa sua. La sua differenza ne era la causa.
— Haras?
— Non posso.
Betan si alzò e tornò alla sua scrivania, sedendo con le gambe incrociate, rivolgendogli la schiena. Thorn riprese in mano la tastiera e guardò lo schermo.
Arrivò un messaggio. “ BETAN: Domani, allora. Posso rispondere a delle domande, cose che ti angustiano.”
Lo osservò svolgersi tre volte. Il suo cuore batteva sempre più forte. “ S-ì.”
Thorn si rimise in piedi e si pulì dalla sabbia. — Sì. Ho capito.
— Ancora — disse Duun. Non capitava spesso che Duun si mettesse solo il piccolo kilt per gli esercizi. Quel giorno l’aveva fatto, e le sue cicatrici erano in evidenza, come lampi che attraversavano la pelliccia grigia e nera del torso e del braccio, uguali alle cicatrici della faccia. Avevano una terribile simmetria che aveva sempre impressionato Thorn, anche prima di sapere che erano cicatrici. Nessuno al mondo era segnato come Duun, e aveva solo mezza mano destra. Nessuno sorrideva in quella maniera insistente che, Thorn lo sapeva, era sufficiente a intimidire qualsiasi avversario. In quel momento intimidiva lui. (Vuole farmi sudare oggi. Ha qualcosa in mente.) Si ricordò di colpo, che era molto, molto tempo che Duun lo lasciava in pace. (Per non interrompere i miei studi… senza dubbio era questa la ragione. Oppure sono migliorato, e non prova a…)
Questo pensiero svanì in un tentativo fallito, negli interminabili istanti di una caduta, quando Duun gli tolse la terra da sotto i piedi.
Duun spesso sorrideva in momenti del genere. Questa volta rimase fermo, con una faccia scura e non accennò ad alcun attacco. Con le mani appoggiate ai fianchi, guardò invece Thorn che si riprendeva dal capitombolo.
— Ancora.
— Duun-hatani, fammi vedere un’altra volta quella mossa di fianco.
Pazientemente Duun gliela fece vedere. Thorn si chinò e provò un trucco, per scherzo.
Le mani di Duun gli si chiusero intorno, e lo buttarono a terra. (Se ne è accorto.) Duun avrebbe potuto ridere, ma la sua faccia non mutò espressione. Thorn esitò un attimo, sul pavimento, dove era al sicuro, guardandolo. (Dei. Ha qualcosa in mente. C’è qualcosa che non va.) Thorn si scosse dalla testa l’intontimento, i pensieri, la giornata, e si rimise in piedi, concentrandosi il più possibile, senza pensare a nulla: nella sua mente solo il ritmo della danza, la luce e la polvere. Non era in città. Era a Sheon, in mezzo al cortile, a mezzogiorno, e Duun lo affrontava nella più assoluta semplicità.
Si mosse, schivò, colpì, si ritrasse, girò.
— Meglio — disse Duun, e quella sola parola gli scivolò lungo i nervi come dita sulle corde del dkin. — Meglio. Ora attacca.
Senza esitazioni, Thorn colpì. Duun rotolò sulla sabbia e si rimise in piedi in una sola mossa.
Risposta e attacco.
Ancora.
Ancora. Thorn evitò un calcio all’inguine e colpì.
Le sue mani incontrarono la carne, e lui girò su se stesso appena in tempo per vedere Duun che si alzava dalla sabbia. Per un soffio evitò un calcio.
Tempo chiamò Thorn, sollevando una mano. Respirava in grandi ansiti. Duun si raddrizzò, ma non del tutto, respirando alla stessa maniera, e si mise una mano sul fianco. (Dei, l’ho preso , gli ho fatto male. O dei, le sue costole…)
— Sei stato bravo — disse Duun. — Hai passato la mia guardia.
(Non si sarebbe fermato. Se non avessi chiesto l’alt…)
(… mi sarebbe venuto addosso. Mi avrebbe preso.) Non appena Thorn se ne rese conto, le ginocchia cominciarono a tremargli.
(Non un altro attacco, per favore Duun, no…)
L’ombra svanì dagli occhi di Duun e tornò la ragione. Si alzò in piedi, rizzò le orecchie, e fece un sorriso con il lato sinistro della bocca, che unito alla piega permanente su quello destro, gli dava un’aria d’ingannevole innocenza.
— Un bagno caldo — disse Duun.
— Tutti e due. Stai tremando, pesciolino.
— Non l’ho fatto apposta. Credevo…
— Domani faremo delle figure semplici. Me l’aspettavo. Al punto in cui siamo, possiamo farci male. Basta con gli esercizi senza regola. È diventato troppo pericoloso.
(Non ho vinto. Non l’ho battuto, non c’è modo di batterlo senza ucciderlo…)
Duun si allontanò. Zoppicava, ma non molto. Thorn si pulì la faccia dal sudore, e si accorse che la mano gli tremava.
(Tutte le volte che mi ha promesso… l’ha sempre saputo).
Non riusciva ad applicarsi alle lezioni. I numeri scorrevano senza significato. E se studiava la storia, le date gli rimanevano nella mente, ma i nomi gli sfuggivano.
— C’è qualcosa che ti preoccupa — disse Sphitti. — Fai gli esercizi fonetici. Quelli puoi farli.
Lo sentì come un insulto. (Sono hatani, avrebbe voluto gridargli; niente mi preoccupa.) Ma purtroppo era la verità. Cloen gli girava attorno guardingo. Elanhen lavorava in silenzio alla tastiera, su qualcosa di astruso e statistico, mentre Betan lanciava occhiate a Thorn da sopra la spalla, senza dire nulla.
Posso aiutarti? Disse il messaggio sul suo schermo.
Dopo , rispose lui, e nient’altro.
(Duun l’aveva truffato. Duun l’aveva manovrato per tutta la vita. Ma perché Duun, aveva passato tutto quel tempo dedicandosi a un solo allievo? Perché Duun era così ricco, e i contadini vivevano in una casa col tetto di lamiera? Ovviamente non adesso che avevano ottenuto Sheon. Perché Duun aveva quel posto, che era sulla cima di uno degli edifici più alti di Dsonan, la capitale del mondo, dov’era il potere? Perché proprio io? Perché Duun? Perché tanta fatica?)
(Perché so così poco delle cose che voglio sapere, e tanto di quelle che non m’interessano? Perché chiudono a chiave le porte, e le guardie ci accompagnano sempre in giro per l’edificio? Guardie per cosa? Per noi o per qualcun altro?)
(Una volta vivevo qui, ha detto Duun).
(Ellud è un vecchio amico.)
(Sono cresciuto a Sheon. Come Duun. Dove ha conosciuto Ellud?)
I numeri si fecero confusi. Thorn, inserì la funzione alfabetica.
Betan Betan Betan , scrisse, e ancora. Betan , e riempì lo schermo con il tasto ripetitore.
Le ore si trascinarono e quando l’orologio segnò mezzogiorno, spensero in silenzio i terminali e si alzarono dalle loro scrivanie. Ma Thorn non spense il suo terminale. Aveva detto alla guardia che sarebbe rimasto a lavorare. — Sono indietro con la storia — disse quando Shitti glielo chiese. Gli altri uscirono senza rivolgergli la parola, chiacchierando fra loro… forse Betan aveva cambiato idea, forse si era dimenticata, forse non aveva dato nessuna importanza alla cosa. Sentì la porta chiudersi, si voltò e vide Betan rientrare.
Betan si diresse alla scrivania di Thorn ed entrambi si sedettero sul bordo, con le ginocchia vicine. Lei aveva un’aria grave, e lo guardava con quella calma che solo lei aveva, neppure Duun. Si era accorta di qualcosa che non andava. Thorn lo sapeva, e il suo cuore cominciò a battere più forte mentre il respiro gli si fece più rapido; ma lei odorava di fiori e di se stessa, come il sole e il calore. — C’è qualcosa — disse lei, lasciando traspirare dal volto una grande ansia. Nessuno, Thorn ne era certo, si rivolgeva a lui così apertamente. — Cos’è?
— Quasi ho battuto Duun ieri. — Thorn rimase turbato per la facilità con cui quell’affermazione esagerata gli era venuta. E non poté più tirarla indietro.
— Si è arrabbiato?
— Non credo. — Il suo respiro si fece più rapido. — Betan, io sono sempre vissuto a Sheon… — (ma questo lei lo sa. Che modo stupido di cominciare) — …non conosco la città, non sono mai stato fuori, tranne una volta, quando sono arrivato. Tu vai fuori molto, vero?
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