— Per i suoi difetti — disse Duun. — Come per le sue virtù. Non mi sono mai aspettato la perfezione. Non la voglio. Per questo mi sono attenuto alle tue scelte.
— Maledetti trucchi hatani — disse Ellud dopo un momento. — Capisco cosa stai facendo ma non mi piace che tu lo faccia con i miei uomini. Cloen avrebbe potuto essere ucciso.
— Non credo. In questo, ho avuto ragione.
— C’è un rapporto su quello che è successo. C’erano troppi testimoni. Non posso nasconderlo. E con tutti i ficcanasi del concilio in giro, vorrei proprio poterlo fare.
— Quello che è successo è stata colpa mia. Forza senza controllo. Contavo su altri due anni a Sheon. Haras si è controllato. Ti dirò una cosa che dovrebbe essere evidente. Le soluzioni hatani sono troppo vaste per le menti giovani. La sua moralità è adeguata per controllare la sua forza, ma non per usarla.
— Farne un hatani… Duun, è questo che ha messo in allarme il concilio…
— Lo so.
— Pensavo che fosse un modo di dire. Nel senso che era tutto quello che potevi insegnargli. Che sapevi come insegnargli.
— Non esagerare.
— Be’, che era più facile. Ma tu intendi andare fino in fondo. Quando gli è giunta voce…
— Cerca di essere discreto.
— Se la Corporazione riuscisse a inventare qualcosa… di intelligente: uno status a metà strada…
— Non c’è metà strada. Dargli quello che gli ho dato… avendo soltanto l’autocontrollo per governarlo? No.
Ellud allungò una mano e spense il registratore. C’era dello sgomento sulla sua faccia. Terrore. — Per amore degli dei, Duun. Hai perso la ragione? Cosa cerchi di fare? Cosa cerchi di fare, Duun?
— Shbit avrà ricevuto la mia lettera, ormai. E al concilio le acque saranno meno agitate.
Un breve silenzio, teso. — Cosa gli hai detto?
— Gli ho inviato i miei saluti. Mi sono felicitato per la designazione del concilio. Gli ho augurato buona salute e mi sono firmato. Una lettera semplice alla quale non ha però risposto. Tornando a noi, aspetto che le tue difficoltà coi rifornimenti si appianino; lentamente, ma che si appianino.
— Non sei l’uomo che conoscevo. — Ellud giocherellò con il bordo del kilt. — Non so cosa pensare di te.
— Vecchio amico. Hai avuto il coraggio di restare in carica fino a ora. Ho fiducia che continuerai.
— Devo. Senza questa carica sono un bersaglio scoperto: mi salterebbero addosso, Shbit e i suoi. Maledizione, non ho scelta. Mi mangerebbero vivo.
— Ci sono io. Abbi fiducia in me.
Ellud lo fissò.
— Cloen ti ha colpito? — chiese Duun quando Thorn tornò a casa. Duun era appoggiato alla porta del suo studio, con le orecchie ritte.
— No — disse Thorn. Non c’era soddisfazione nel suo tono. (Quante cose controlli, Duun? Lo sai già? Lo sai sempre?) Duun non gli offrì alcun indizio. — “Cloen”, gli ho detto. “Ho sbagliato a fare quello che ho fatto. Ti permetto di colpirmi una volta.” Cloen è rimasto lì con le orecchie abbassate, e ha sollevato la mano facendo segno di no. Poi se ne è andato a fare le sue cose.
Duun si voltò ed entrò nel suo studio.
— Duun? — Thorn andò fino alla porta. Duun si sedette e accese il computer. — Duun, ho fatto quello che volevi?
— Hai fatto quello che volevo?
Thorn rimase un momento in silenzio. — Ho cercato, Duun.
— Ho sentito non posso ?
— No, Duun.
I suoni erano diventati meno aspri. Thorn era seduto davanti al registratore, con gli occhi chiusi; le sue labbra si muovevano ripetendo il nastro: quando lo risentì, era uguale.
— Sembra identico — disse Cloen. — Non riesco a sentire la differenza.
Cloen, da quel giorno, era cauto. La sua faccia non tradiva altro che rispetto. E paura; c’era anche quella.
— Allora ho finito.
— Ce n’è un altro. — Cloen si leccò le labbra, con aria diffidente. — È arrivato da poco. Non l’ho chiesto io — aggiunse in fretta.
Doveva credergli. Cloen non aveva l’aria di mentire. Prese il nastro dalla borsa e glielo porse.
— Preferisco la chimica — mormorò Thorn. Si sentiva più a suo agio con loro dal giorno in cui Cloen non l’aveva colpito. Poteva dire cose del genere, parlare delle necessità di ogni giorno, come facevano loro. Assumeva quell’atteggiamento per tutta la durata delle lezioni, da quando entrava a quando usciva dalla porta. Si era accorto che così si sentivano più a loro agio con lui. Qualche volta riusciva a ridere con loro, perché si era convinto che non era oggetto di riso. O se lo era stato, non aveva molto importanza.
(Ma odio queste lezioni di pronuncia. Odio questa assurdità. Penso che gli piaccia farmele fare: come una rivincita nei confronti dell’hatani che non possono sconfiggere in altro modo. Anch’io gli gioco qualche scherzo. Posso fare sì che il computer dia a Sphitti una lettura che non si aspetterebbe mai. Penso che lo troverebbe divertente. Vorrei poter studiare più fisica, e meno di questa roba.)
(Vorrei che Betan sedesse con me, invece di Cloen.)
(Non oso pensarlo. Duun mi romperebbe un braccio?)
— Grazie — disse asciutto, e infilò la nuova cassetta nel registratore.
Cloen lo lasciò solo. Crescevano in modo diverso: le spalle di Thorn si facevano più larghe mentre i segni da bambino del povero Cloen non accennavano ad andarsene.
Betan rimase assente per un po’ di tempo. (“È primavera”, disse Elanhen, facendo avvampare la faccia di Thorn. “Ha preso un neutralizzante, ma vuole farsi qualche giorno di vacanza. Tornerà.”)
— È primavera — disse Duun quella sera. — So che Betan si è presa una vacanza.
— Sì — disse Thorn. Aveva il dkin sulle ginocchia, lo stava accordando. Si sentì gelare dentro, per delle ragioni che non riusciva chiaramente a definire, fatta eccezione per la faccenda di Betan, un argomento che teneva separato da tutto il resto. E Duun sapeva invariabilmente scoprire queste cose.
— Mi hanno detto che usava il neutralizzante, ma voleva prendersi una vacanza. Immagino che abbia gualche amico.
— È probabile. — disse Duun.
— Tu devi essere cortese a scuola. Gli uomini non hanno stagioni. Ma le loro sorelle, le loro madri e le loro amiche sì. Ed Elanhen, Cloen e Sphitti hanno delle vite fuori dalla scuola, ricorda. Non metterli sotto pressione.
(E io?) Tu sei hatani, avrebbe risposto Duun, se Thorn fosse stato tanto sciocco da porre la domanda. Gli hatani non hanno bisogni.
(Dei, non voglio parlare di questo con lui , non oggi.)
Betan tornò. Arrivò un giorno, tutta sorrisi, e quella che era stata una società di maschi, fatta di cortesie guardinghe e di pochi scherzi, tornò a vivere.
(Come se il cuore fosse tornato al suo posto.) Thorn sentì qualcosa ingrandirsi dentro di sé, come per il venire meno di un’ansia. La primavera era finita.
— Avete sentito la mia mancanza? — chiese Betan.
Gli altri mossero le orecchie e girarono gli occhi: lo facevano abitualmente quando parlavano di cose proibite e volgari.
— Sì — disse semplicemente Thorn. La dignità pareva la scelta migliore. (Scherzano sul fatto che è nella stagione. Scommetto che nessuno di loro si è avvicinato a una donna, questa primavera.)
(E neppure io. Né intendo farlo. Un hatani non ha nulla. Non possiede nulla. Betan ha delle proprietà in città. Non ha bisogno di sposarsi. Potrebbe allevare tutti i bambini che vuole da sola.) Fra Duun e le barzellette sconce, aveva imparato alcune cose. (Ma scommetto che qualcuno le farà una buona offerta.)
— Quando Ghosan-hatani arrivò nel villaggio di Elanten, due sorelle le chiesero di fare da giudice nella contesa che le opponeva al loro marito. Erano sposate allo stesso uomo da cinque anni, ciascuna in successione. Tutti e tre erano vasai. E poiché a lui era stato promesso un negozio di vasaio, in eredità da sua madre, poteva sembrare un matrimonio d’interesse. Durante il quarto anno della prima sorella, la seconda sorella rimase incinta di un bambino che era solo suo. Il marito rifiutò di consumare il secondo matrimonio se la donna non diseredava questo figlio. Così facendo, entrambe le donne avrebbero perso tutto ciò che avevano investito in quel negozio. “È una faccenda da poco”, disse Ghosan-hatani quando le sorelle vennero da lei. “Giudicatela da voi.” Naturalmente il marito non c’era: non desiderava affatto giudizi e sentenze sull’argomento. La seconda sorella guardò Ghosan e perse il coraggio. “Andiamocene”, disse alla sorella. “Siamo state sciocche a rivolgerci a questa hatani.” E se ne andò. Ma la prima rimase. “Voglio un giudizio” disse. Così Ghosan-hatani andò di porta in porta, a Elanten, chiedendo a tutti, compreso il magistrato, ciò che sapevano. E tutti confermarono ciò che avevano detto le sorelle. “Datemi una penna”, disse Ghosan. Il magistrato diede all’hatani una penna. E Ghosan scrisse nel registro della città che il negozio apparteneva al bambino e ai suoi discendenti; e se non a loro, apparteneva al villaggio di Elanten.
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