— … e ciascuna parte è uguale a tutte le altre. E, cosa strana, non si vedono molto le stelle. Le puoi vedere dalla navetta, se vai davanti. Ti lasciano. È bellissimo. Il mondo è bellissimo. Non l’hai visto in fotografia?
(Il globo scuro con il fuoco che viene su di esso, il posto roteante…)
— No, naturalmente no, non l’hai visto. Ho un bellissimo nastro per finestra. L’ho comprato alla stazione. È la terra vista dallo spazio. Credo che potrò trovartene una copia. Si può vedere il sole spuntare dietro la curva del mondo; i mari e le nuvole a spirale…
— Si sta risvegliando… si sta risvegliando. Aspetta a fargli l’iniezione. Sta rinvenendo.
— Quello l’ha scosso. È successo qualcosa.
— Zitti. Ci sente. Portiamolo fuori di qui.
— Ci senti, Thorn? Muovi la mano se ci senti.
— Aaaaaaaaiiiiii!
Era la sua voce. Era Thorn quello che gridava. Uscì combattendo dal buio, e il buio era attorno a lui, con le stelle che splendevano a vertiginosa distanza.
La luce brillò, bianca e terribile, Thorn si gettò giù dal letto, accecato, e colpì il muro con la schiena, prima di scorgere Duun sulla soglia, contro il buio del corridoio; Duun nudo, appena uscito dal letto, lì che lo guardava. — Tutto bene, Thorn?
Thorn si appoggiò alla superficie fredda del muro. Le sue membra cominciarono a tremare, per una reazione. — Mi dispiace, Duun.
Duun continuava a guardarlo. Aveva le orecchie appiattite. Thorn si staccò dal muro. Le finestre mostravano il sorgere del sole su una prateria. Duun aveva scombussolato il timer. Il condizionatore d’aria immetteva odore d’erba e di rugiada fresca. Thorn rabbrividì ancora, sentendone il soffio sulla pelle. Lembi di coperte sfioravano la sabbia là dove cominciavano le impronte della sua fuga.
— È stato un incubo — disse Thorn. — Ho sognato… — (Facce, suoni.) Ricominciò a tremare. — Facce come la mia , Duun… Non mi hanno fabbricato!
Duun non disse niente. Aveva quell’espressione da maschera che indicava come non avesse intenzione di dire niente.
— È così? — insistette Thorn.
— Chi dice che non abbiano fabbricato i nastri?
— Non farmi questo, Duun!
— Non hai un’aria assonnata. Vuoi una tazza di tè, qualcosa da mangiare?
Thorn si arrese. Duun era gentile. Duun lo stava distogliendo di nuovo dal problema. Thorn conosceva i suoi trucchi. Strappò dal letto le coperte piene di sabbia e le buttò sul pavimento. Il materasso aveva bisogno comunque di esser voltato e battuto, e le lenzuola di essere lavate. Duun era uscito, lasciando aperta la porta. Thorn aprì l’armadietto sul lato del rialzo e prese i vestiti indossati il giorno prima; doveva però ancora fare il bagno.
Duun era in cucina quando entrò. Stava appoggiando la teiera sul rialzo. — Sobasi?
— Va bene. — Il forno a microonde era acceso. Appena si spense, Thorn ne tirò fuori i piatti e li appoggiò sul tavolo. (Facce. Facce. La stazione. Navi che andavano e venivano. Punti e simboli. Chimica. Il valore del pi greco. Numeri.) Thorn si sedette lasciando dondolare le gambe incrociate. Duun fece lo stesso, e si versò il tè. — Ne bevo troppo — disse. — Non mi fa dormire.
— Anch’io. Duun, possiamo parlarne… una volta?
Le orecchie di Duun erano piatte.
— Per favore, accidenti!
Duun gli porse la teiera, con espressione mite. — Una domanda. L’ascolterò. Solo una, Haras-hatani. Non devi farla ora, se vuoi pensarci. I pensieri affrettati non sono mai giusti.
Thorn prese la teiera, ricompose il viso e versò il tè. (Lo odio. Lo odio. Non ha nervi in corpo.) — Te lo dico io quando ti faccio la domanda; non voglio che tu prenda la prima che mi capita di fare, e dica che è quella. Hai un’amante?
(L’ho beccato.) Le orecchie di Duun guizzarono; gli occhi si dilatarono e si contrassero, — Era questo l’incubo?
— No. Sono soltanto curioso.
— Nessuna adesso. Ho avuto per un po’ una compagna. L’ho mandata via. — Duun si riempì la bocca e inghiottì.
— Perché?
(Un altro colpo. Non avevo pensato a questo.) — Mi voleva sposare e io no.
— Quanti anni hai?
— Pesciolino, quando abbiamo cominciato c’era in ballo una domanda. Cosa c’entra l’età?
— Ieri te la sei presa con me perché sto sempre sulla difensiva; attacca qualche volta, hai detto. Si può fare anche fuori dalla palestra. Sto attaccando. Pensi di essere vecchio?
Duun sogghignò. — Fra poco ti spingerai troppo in là, Haras-hatani, e io porrò fine al gioco. Pensi che io sia vecchio?
— Qual è stata la tua soluzione per il governo?
— Farti hatani. È quello che ho fatto.
— Perché non volevi che imparassi com’è il mondo?
— Adesso l’hai imparato, no? — Duun alzò le spalle. (Dei, neanche un tremito.) — In effetti, abbiamo parlato troppo di Sheon e troppo poco del mondo. Quando siamo venuti qui, con due anni d’anticipo rispetto ai miei piani, dovresti ricordare — (contrattacco e affondo) — tu eri piuttosto scosso, e sapevi anche troppo di essere diverso. — (Colpito ancora. Dei, non ha pietà!) — Cosa devo fare? Buttarti addosso il mondo in un solo giorno? Ascolta, pesciolino, avevo un problema da risolvere: allevare un ragazzo senza televisione, senza fotografie delle città e senza alcun indizio di come fosse la vita fuori da Sheon, perché qualsiasi immagine ti avrebbe mostrato che tutta la gente è come me, e nessuno come te. Dovevo educarti senza educarti, non so se mi spiego, perché non volevo che soffrissi per la tua differenza. Volevo darti un’infanzia, e ti ho dato la migliore che conoscevo: ti ho dato la mia.
(Sta lavorando su di me. Dice la verità. Qual era l’esperimento? Non hanno ancora finito.) Thorn sentì il sudore raccogliersi fra le pieghe dietro il ginocchio e sotto le ascelle.
— Devi ammettere — disse Duun — che negli ultimi due anni ti sono state versate nella testa un sacco di cose, un sacco di fatti. Sei andato dal passato al presente. Ti dico una cosa: quando ho cominciato non sapevo quale poteva essere la tua capacità intellettuale, se era normale, oppure no. Non sapevo se avrei potuto fare quello che avevo in mente. Dovevo saperlo prima di permettere a qualcun altro di mettere le mani su di te… Se potevi essere hatani. Ricordati della figlia di Ehonin.
— Perché è importante che io sia hatani?
— È questa la tua domanda?
— Ti ho detto che ti avrei avvisato quando fosse stata la mia domanda.
— Bene, risponderò a questo un giorno o l’altro.
— Questa è la mia domanda: perché le cose che mi fanno vedere hanno la stazione, e la stazione è piena di gente come me?
— Sono due domande.
— È una sola. Un hatani dovrebbe vederne l’unità.
— Bene, la considererò una sola. La stazione è piena di gente normale, e io ti ho detto la verità: sei unico. Probabilmente i test ti fanno sognare in una strana maniera: ci sono delle implicazioni psicologiche che senz’altro interessano i medici.
— L’esperimento continua, vero? — (Dei, mi ha distorto un’altra volta. Tutto. Tutto è un’illusione, come le finestre.) — Non è così, Duun?
— Questa è un’altra domanda. Ti ho detto che non volevo parlarne qui dentro; pensavo che ti avrebbe fatto piacere avere un posto dove la gente non ti fa a pezzi il cervello, e gioca con quello che conosci.
— Dei, dimmi dov’è questo posto!
Duun sorrise, o forse era la cicatrice. — Mangia. Mi hai svegliato. Tanto vale che ti mangi la colazione che ho preparato.
— È una lingua, Sagot. Perché non me lo dicono e basta?
— Taci. Non posso parlarne.
— Cosa mi stanno facendo?
— Thorn, non posso discuterne in nessun modo. Per favore.
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