— Mi sento male quando esco di là. Mi sento come se mi avessero rivoltato dentro. Vedo cose nel sonno. Ho fatto cambiare le finestre. Prima c’erano le stelle. Mi svegliavo e non sapevo dov’ero, e mi sembrava di cadere, come a volte accade nei sogni, ma molto peggio. Adesso ci sono boschi, e qualche volta i boschi di Sheon con la pioggia. Non posso dormire senza. Vorrei che cambiassero quell’orribile deserto nel laboratorio.
— Vorrebbe essere distensivo.
— C’è troppo cielo. È morto. Mi sogno di un posto come quello, e non mi piace.
— Gli chiederò di cambiarlo. Sono sicura che lo faranno. Cercano davvero di essere gentili con te, lo sai.
— Mi odiano.
— Ragazzo, sono dei professionisti. Devono essere freddi. Le loro menti sono concentrate su quello che devono fare, e sono come tutti i professionisti: trattano la gente come se schiacciassero dei bottoni, e si aspettano che le cose funzionino nella maniera giusta. Si dimenticano che c’è una persona attaccata a quella gamba e a quel braccio, perché nella loro mente la vedono a un livello differente, per esempio come vene e nervi. A quel livello, il tuo corpo è solo una mappa con dei sentieri; e loro li seguono senza pensare che da qualche parte di quel sistema c’è un cranio con un cervello dentro e un giovane molto ansioso che vive lì dentro e osserva e ascolta quello che si dicono tra loro.
(Sagot, stai distraendo la mia attenzione. Conosco il trucco. Sono un ragazzo tra due adulti esperti, che mi tengono costantemente in sospeso. Mi stanco di combattere contro la bufera. Voglio solo lasciarmi andare e finirla, qualche volta.)
— Sto pensando di uccidermi.
Panico. Sagot lo guardò turbata. Thorn fece una smorfia, sentendo un dolore dentro.
— Stavo scherzando. Sei molto brava a cambiare argomento. Ho pensato di farlo anch’io.
— Non scherzare su una cosa del genere, ragazzo. Ho avuto un marito che l’ha fatto. Penso che non ci sia niente di divertente.
— Non parlarmi dei tuoi mariti! Ci stai provando un’altra volta. Non ti ascolterò! — Scese di scatto dal rialzo e uscì dalla stanza. Sagot rimase immobile, in silenzio. Thorn arrivò fino alla porta d’ingresso, nella stanza con il vaso e i ramoscelli: la porta era chiusa. Schiacciò il pulsante. Batté i pugni sulla porta. — Aprite! Voglio uscire!
Non c’era possibilità di fuga. Alla fine dovette tornare indietro (come Sagot si aspettava). Ma si sedette sul rialzo più lontano, accavallò le gambe e si studiò le vene delle mani e delle caviglie, che erano gonfie per l’ira. Mappe. Sentieri. Il marito di Sagot probabilmente si era suicidato davvero , non se lo stava inventando. Se ne stava seduta di fronte a quel ragazzo maleducato, ingrato e scontroso; che l’aveva colpita in maniera hatani. Aveva colpito Cloen. Aveva colpito Sagot. Entrambe le volte aveva pervertito ciò che gli era stato insegnato.
Alla fine si alzò e andò a sedersi di fronte a Sagot. — Puoi sgridarmi, Sagot. Per favore.
— Non ne ho bisogno.
(Colpito. Abile e mortale come il sarcasmo di Duun quando era arrabbiato.) Thorn sentì una stretta allo stomaco. — Perdonami, Sagot Sagot, non odiarmi.
— Cattivo. E astuto. Si vede che sei uscito dalle mani di Duun. Torniamo ai medici, allora?
— Non dirmi che non mi odiano. So leggere i gesti; so leggere gli occhi, Sagot. Mi odiano e hanno paura di me, e sono stati loro a farmi quello che sono. È ragionevole?
— Forse è dell’hatani che hanno paura. Ci hai pensato? Alla gente non piace essere letta. Un hatani chiede ospitalità; tu gli dai cibo e un posto per dormire, e cominci a pensare a ogni mossa che fai, perché sai che lui ti legge dentro, costantemente, attraverso ogni più piccolo gesto. Ci vorrebbe una persona molto stupida, o molto innocente, per essere sereni sotto lo stesso tetto con un hatani.
— Un hatani non giudica se non gli viene chiesto. Qualche volta neppure allora. Perché dovrebbero preoccuparsi?
— Senso di colpa. Ognuno è colpevole di qualcosa. Un hatani ti fa sapere di cosa sei colpevole.
— Anche gli hatani sono colpevoli, Sagot.
— Ma lo nascondono. Sanno come non farsi leggere dentro, vero? Se vogliono veramente. Qualche volta non vogliono. — Sagot si alzò, venne a sedersi vicino a lui e gli mise un braccio attorno alle spalle. — Qualche volta non vogliono, vero? Avanti, appoggiati a me, non lo dirò a nessuno.
— Parlami dei test, Sagot.
— Cattivo. — Con la mano gli premeva la spalla vicino al collo, e questo lo rendeva nervoso. Si mosse, e lei spostò la mano sulla schiena. — Hai proprio una mente hatani. Stai crescendo.
— Sento delle parole, Sagot; suoni nella testa, e parole nei suoni.
— Cosa dicono queste parole?
— Mi salutano, vogliono qualcosa, non so cosa; parlano del sole e della terra, della matematica, della chimica, dell’ossigeno, del carbonio, più e più volte, e parlano di cose senza importanza e degli elementi, delle reazioni dentro il sole, del ciclo di vita delle stelle…
I muscoli delle braccia di Sagot si erano tesi. Thorn si voltò a guardarla da vicino e vide i suoi occhi dilatarsi e contrarsi. — Ti ho spaventato? — chiese Thorn.
— Continua a parlare.
— Non dovrei parlarti di queste cose. Me lo dici sempre.
— Di questo puoi parlare. Vai avanti.
— Non c’è altro. Non riesco a ricordare altro. Vedo questo posto deserto, e un posto come una stazione spaziale. Vedo la terra nello spazio, con il sole che sorge, e facce… facce come la mia; la stazione spaziale ne è piena: persone come me che vanno e vengono, parlano… qualche volta sono arrabbiati, e riesco a leggere dentro di loro, anche se non so cosa dicono. C’è una donna che vuole qualcosa… Duun dice che me la immagino, ma non immaginerei mai una cosa così. Ha la bocca tutta rossa, i capelli lunghi, e gli occhi sono dipinti attorno ai bordi; vuole assolutamente qualcosa ed è arrabbiata con un uomo. Lui è spiacente, e loro continuano a incontrarsi in uno di quei posti dove la gente mangia, e hanno vestiti, vestiti per gente senza pelliccia. E lei ha una forma come… — Disegnò con le mani nell’aria la pienezza del suo petto. (Bianco, tutto bianco, e grande, strano.) — E poi, c’è di nuovo un sacco di gente che va e viene. Lei esce con un altro uomo, e vanno nella camera da letto di lui e si amano. Ma non è amore: lui non le piace nemmeno, e lui è arrabbiato per questo, e forse anche per qualcos’altro. Poi lei se ne va e ritrova il primo uomo, ma lui sta per andarsene da qualche parte e non vuole parlarle. Lei piange. Lui se ne va. Lei va nel posto dove la gente mangia, ed è molto infelice. Poi lui entra e va a sedersi vicino a lei, ma non ci sono dei mobili normali: hanno tutti le gambe. Lei fa finta di non essere felice di vederlo e continua a mangiare. Lui sa che fa finta, e dice qualcosa, e si guardano e dicono qualcosa a proposito di andare da qualche parte. Poi finisce e non so dove sono andati.
Sagot gli prese il viso fra le mani e Thorn era così perso che la lasciò fare. Dopo un po’ avvicinò la faccia a quella dell’allievo e gli lavò gli occhi con la lingua; questo, anche se Sagot era vecchia, lo fece sentire strano e amato.
— È quello che dovrei vedere?
Lei lo lasciò andare. — Vai a casa. Chiamo Ogot.
— Cosa dovrei vedere. È finita?
— Non lo so. Vai a casa.
Ellud camminò su e giù, e gettò in alto le braccia. — Non posso mettere a tacere la cosa!
— Non devi farlo. — Duun era seduto. — Lo porto questo pomeriggio. Voglio l’elicottero sul tetto e l’aereo a Trusa, senza dovere aspettare. Prendine uno fuori servizio. Lo piloterò io.
— Dei, il tuo brevetto è scaduto. Non posso permetterlo. Al giorno d’oggi gli aerei si pilotano con i computer. Ti procurerò un pilota. — Ellud ci provò, ma gli andò male.
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