Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— È importante per me, qui, — disse Roger.

— Oh, per l’amor di Dio. Quando il sistema funzionerà, tu vedrai e udrai soltanto quello che è necessario, capisci? O quello che vorrai. Disporrai di un controllo volitivo considerevole. Sarai in grado…

— Non so neppure chiudere ancora gli occhi, Brad.

— Imparerai. Sarai in grado di utilizzare tutto. Ma non potrai farlo se non cominciamo. Poi questi apparecchi escluderanno tutti i segnali superflui, in modo che tu non ti confonda. È questo che ha ucciso Willy: la confusione.

Una pausa, mentre dietro la faccia grottesca il cervello rimuginava. Alla fine, tutto ciò che Roger disse fu: — Hai una gran brutta cera, Brad.

— Mi dispiace. In verità, non sto molto bene.

— Sei sicuro di essere in condizioni di farcela?

— Sono sicuro. Ehi, Roger, ma cosa stai dicendo? Vuoi rimandare?

— No.

— Beh, e allora cosa vuoi?

— Vorrei saperlo, Brad. Continua.

Ormai eravamo pronti; le luci verdi del «via» lampeggiavano già da parecchi minuti. Brad alzò le spalle e disse imbronciato all’infermiera: — Cominciamo.

Poi, per dieci ore, i circuiti di mediazione vennero messi in fase uno ad uno, collaudati, regolati, mentre Roger provava i suoi nuovi sensi sulle proiezioni delle macchie di Rorschach e delle ruote colorate di Maxwell. Per Roger, la giornata volò. Il suo senso del tempo non era molto attendibile. Non era più regolato dagli orologi biologici innati in ciascuno, bensì dalle componenti meccaniche; queste rallentavano la sua percezione del tempo quando non vi era una situazione di stress, l’acceleravano quando era necessario. — Rallentate, — implorava Roger, guardando le infermiere che gli sfrecciavano accanto veloci come proiettili. E poi quando Brad, che ormai cominciava a tremare per la stanchezza, rovesciò un vassoio d’inchiostri e di pastelli, a Roger parve che quegli oggetti scendessero fluttuando verso il pavimento. Non ebbe difficoltà ad afferrare al volo due bottiglie d’inchiostro e lo stesso vassoio prima che toccassero terra.

Quando vi ripensò, più tardi, si rese conto che si trattava degli oggetti che si sarebbero potuti rompere. Aveva lasciato cadere i pastelli di cera. In quella frazione di secondo in cui aveva avuto una possibilità di scelta, aveva scelto di afferrare gli oggetti che bisognava afferrare e aveva lasciato perdere gli altri, senza accorgersi di quanto aveva fatto.

Brad era molto soddisfatto. — Sei stato grande, ragazzo mio, — disse, aggrappandosi ai piedi del letto. — Ora me ne vado a dormire un po’, ma domani verrò a trovarti dopo l’intervento chirurgico.

— L’intervento? Quale intervento?

— Oh, — disse Brad. — Un semplice ritocco. Roba da nulla, in confronto a quello che hai già passato, credimi. D’ora innanzi, — disse, voltandosi per uscire, — hai finito di nascere: ora non devi far altro che crescere. Esercitarti. Imparare a servirti di quello di cui disponi. La parte più difficile è superata. Hai imparato a interrompere la vista quando vuoi?

— Brad, — risuonò la voce inespressiva, più sonora ma egualmente grigia, — che cosa diavolo vuoi da me? Io ci provo!

— Lo so, — fece Brad, conciliante. — Ci vediamo domani.

Per la prima volta, quel giorno, Roger fu lasciato solo. Sperimentò i suoi nuovi sensi. Si rendeva conto che potevano essergli molto utili in situazioni di sopravvivenza. Ma lo confondevano moltissimo. Tutti i piccoli suoni della vita quotidiana erano ingigantiti. Sentiva Brad, in corridoio, parlare con Jonny Freeling e le infermiere che smontavano di servizio. Sapeva che con le orecchie dategli da sua madre non avrebbe percepito neppure un brusio: ma adesso poteva distinguere le parole a volontà: — anestesia locale, ma non voglio. Voglio che non si accorga di niente. Ha già abbastanza traumi da sopportare. — Era Freeling, che parlava a Brad.

Le luci erano più brillanti. Roger tentò di ridurre la sensibilità della propria vista, ma non accadde nulla. Quello che gli occorreva, pensò, era solamente una di quelle lampadine minuscole, da albero di Natale. C’era molta luce: quell’intensa luminosità era sconcertante. Inoltre, osservò, le luci erano ritmiche, da impazzire: riusciva a percepire ogni pulsazione della corrente a sessanta Hertz. All’interno dei tubi fluorescenti osservò il contorcersi di un fulgido serpente di gas. Le lampade a incandescenza, d’altra parte, erano quasi buie, a parte i filamenti brillanti al centro, che egli poteva esaminare dettagliatamente. Non provava l’impressione di sforzarsi gli occhi, anche quando guardava la luce più intensa.

Udì una voce nuova, in corridoio, e aguzzò l’udito per ascoltare: Clara Bly, che era venuta a prendere servizio per il turno di notte: — Come va il paziente, dottor Freeling?

— Benissimo. Mi sembra riposato. Ha dovuto dargli un sonnifero, ieri notte?

— No. Stava bene. Un po’… — Clara ridacchiò. — Un po’ strano, comunque. Ha fatto una specie di osservazione sconcia, che da Roger non mi sarei mai aspettata.

— Uh. — Vi fu una pausa di perplessità. — Bene, non sarà più un problema. Devo andare a controllare le letture. Abbia cura di lui.

Roger pensò che avrebbe dovuto essere molto gentile con Clara; non sarebbe stato difficile, poiché era la sua infermiera preferita. Si distese, ascoltando il fruscio delle ali nere e i suoni ritmici dei pannelli telemetrici. Era molto stanco. Sarebbe stato piacevole dormire…

Si risollevò di scatto. Le luci si erano spente! Poi si riaccesero di nuovo, non appena egli se ne accorse.

Aveva imparato a chiudere gli occhi!

Soddisfatto, Roger si lasciò sprofondare di nuovo nel letto che ondeggiava dolcemente. Era vero: stava imparando.

Lo svegliarono per dargli da mangiare, e poi lo riaddormentarono per l’ultima operazione.

Non vi fu anestesia. — Ci limiteremo a spegnerti, — disse Jon Freeling. — Non sentirai niente. — E in effetti non sentì niente. Lo portarono nella vicina sala operatoria, con i flaconi delle terapie intensive, i cateteri, i sondini e tutto il resto. Roger non poté sentire l’odore del disinfettante, ma sapeva che c’era: percepiva la luminosità raccolta sulle punte di ogni oggetto, il calore dello sterilizzatore, come una raggera sullo sfondo della parete.

Poi il dottor Freeling ordinò di fargli perdere conoscenza, e noi obbedimmo. Deprimemmo uno ad uno i suoi input sensoriali: per lui fu come se i suoni si affievolissero, le luci si offuscassero, le sensazioni tattili si addolcissero. Smorzammo gli input del dolore attraverso tutta la nuova epidermide, li estinguemmo completamente dove avrebbe inciso il bisturi di Freeling e dove sarebbe penetrato l’ago. C’era un problema complesso. Molti degli input del dolore dovevano venir mantenuti anche dopo che Roger fosse guarito. Era necessario che avesse un sistema di segnalazione, quando fosse stato libero sulla superficie di Marte: qualcosa che lo avvertisse se si ustionava, si causava lacerazioni o lesioni; e il dolore era il sistema d’allarme più efficace che potessimo dargli. Ma per la maggior parte del suo corpo, la sofferenza era finita. Mentre estinguevamo gli input li escludevamo programmaticamente dal suo apparato sensoriale.

Roger, naturalmente, non sapeva nulla di tutto questo. Si limitò ad addormentarsi e poi a svegliarsi.

Quando alzò lo sguardo, urlò.

Freeling, che si era rialzato e si sgranchiva le dita, sussultò e lasciò cadere la maschera. — Cosa succede?

Roger disse: — Gesù! Per un momento ho visto… non so. Poteva essere un sogno? Ma vi ho visti tutti intorno a me, intenti a guardarmi, e sembravate un branco di guul. Teschi. Scheletri. Mi guardavate sogghignando! E poi siete tornati come siete.

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