Riguardai il numero di Un giorno a New York e tutto Femmine bionde , convinto che contenesse qualcosa d’importante che mi stava sfuggendo. Era un remake di Gold Diggers of 1933 , ma non era questo a tormentarmi. Richiamai tutti i numeri sullo schermo in ordine di difficoltà, dal più semplice al più difficile, probabilmente sperando di ricavare qualche indizio sulle mosse successive di Alis, ma non servì a niente. Sette spose per sette fratelli era la cosa più difficile che avesse fatto, e l’aveva fatta sei settimane prima.
Preparai un elenco dei film in base a data, casa di produzione e interpreti, poi eseguii un controllo incrociato dei dati. E per un po’ rimasi lì a fissare l’assoluta mancanza di risultati significativi. E gli schermi.
Bussarono alla porta. Mayer. Spensi gli schermi e cercai di pensare a un film da richiamare che non fosse un musical, ma mi si era svuotata la mente. — Scandalo a Filadelfia — dissi alla fine. — Fotogramma 115-010 — e urlai: — Avanti!
Era Hedda. — Sono venuta a dirti che Mayer è incazzato al fulmicotone perché non gli hai più mandato film. — Si mise a guardare lo schermo: la scena del matrimonio. Tutti quanti, Jimmy Stewart, Cary Grant, erano raccolti attorno a Katharine Hepburn, che aveva un grosso cappello e i postumi della sbronza.
— Corre voce che Arthurton farà arrivare un nuovo tizio, in teoria per dirigere l’Editing — disse Hedda — ma in realtà per fargli da assistente, nel qual caso Mayer è fuori.
Bene, pensai. Se non altro il macello finirà. Ma se Mayer fosse stato licenziato, io avrei perso il mio accesso e non avrei mai trovato Alis.
— Ci sto lavorando — dissi, e mi lanciai in una complessa spiegazione sul perché fossi ancora fermo su Scandalo a Filadelfia.
— Mayer mi ha offerto un lavoro — disse Hedda.
— Allora adesso che ti ha assunta come corpocaldo ti sta a cuore che non lo silurino, e sei venuta a raccomandarmi di darmi da fare?
— No. Non corpocaldo. Assistente ai set. Parto oggi pomeriggio per New York.
Era l’ultima cosa che mi aspettassi. Mi girai a guardarla e scopersi che indossava gonna e blazer. Hedda nella parte di una dirigente di uno studio.
— Parti? — ripetei, incredulo.
— Oggi pomeriggio. Sono venuta a darti il mio numero di accesso. — Tirò fuori un foglio. — È asterisco nove due punto otto tre tre — e mi porse il pezzo di carta.
Io lo guardai. Mi aspettavo il numero, ma era un elenco di titoli di film.
— In nessuno di questi c’è gente che beve — disse Hedda. — Corrispondono a circa tre settimane di lavoro. Per un po’ dovrebbero placare Mayer.
— Grazie. — Ero stupefatto.
— Betsy Booth colpisce ancora — disse lei.
Devo avere avuto l’aria di chi non capisce.
— Judy Garland. Love Finds Andy Hardy. Te l’ho detto che ho guardato un sacco di film. È per questo che ho ottenuto quel lavoro. L’assistente ai set deve conoscere tutti i set e i filmati di repertorio e gli ambienti e riuscire a ritrovarli per il techno. Così non se ne digitalizzano di nuovi e si risparmia memoria.
Indicò lo schermo. — Scandalo a Filadelfia ha una biblioteca pubblica, la redazione di un giornale, una piscina, e una Packard del 1936. — Sorrise. — Ricordi quando mi hai detto che i film ci insegnano a recitare la nostra parte e ci danno le battute da pronunciare? Avevi ragione. Però avevi torto sulla mia parte. Hai detto che era quella di Thelma Ritter, ma non è vero. — Agitò la mano in direzione dello schermo, del gruppo nuziale. — Era la parte di Liz.
Fissai le immagini pensoso, incapace per un momento di ricordare chi fosse Liz. La precoce sorellina di Katharine Hepburn? No, un minuto. L’altra reporter, la ragazza di Jimmy Stewart che aveva sofferto per tanto tempo.
— Ho interpretato Joan Blondell — disse Hedda. — Mary Stuart Masterson, Ann Sothern. La ragazza della porta accanto, la segretaria innamorata del suo boss, solo che lui non si accorge mai di lei, pensa che sia soltanto una ragazzina. Lui è innamorato di Tracy Lords, ma Joan Blondell lo aiuta lo stesso. È pronta a fare tutto per lui, pensino a guardare film.
Infilò le mani nelle tasche del blazer, e io mi chiesi quando diavolo avesse smesso di portare il vestito col top e i guanti di raso rosa.
— La segretaria gli resta fedele. Rimane al suo fianco e gli dà consigli. Addirittura lo aiuta nella sua storia d’amore, perché sa che alla fine del film lui si accorgerà di lei, si renderà conto di non poter andare avanti senza lei, capirà che Katharine Hepburn è la donna completamente sbagliata per lui e scoprirà di essere sempre stato innamorato della segretaria. — Hedda mi guardò. — Ma i film non sono la vita, giusto? — chiese tetra.
I suoi capelli non erano più biondo platino. Erano castano chiaro con le mèche. — Hedda… — dissi.
— Tutto okay. Ho già capito. È quel che succede a prendere troppo klieg. — Sorrise. — Nella vita reale, Liz deve togliersi Jimmy Stewart dalla mente, accontentarsi di essergli amica. Farò un provino per una nuova parte. Joan Crawford, magari?
Scossi la testa. — Rosalind Russell.
— Be’, come minimo Melanie Griffith. In ogni caso, io parto oggi pomeriggio, e volevo solo salutarti e farmi augurare buona fortuna.
— Sarai grande — le dissi. — Tra sei mesi sarai la proprietaria dell’ILMGM. — La baciai su una guancia. — Tu sai tutto.
— Già.
Si avviò alla porta. — Alla tua salute, ragazzo — disse.
La guardai scomparire in corridoio, poi rientrai nella stanza. Studiai l’elenco che Hedda mi aveva dato. Conteneva più di trenta film. Quasi una cinquantina. Quelli in fondo avevano qualche nota: “Fotogramma 14-1968, bottiglia sul tavolo” e: “Fotogramma 102-166, un’allusione alla birra”.
Avrei dovuto richiamare i primi dodici e spedirli a Mayer per calmarlo, ma non lo feci. Restai seduto sul letto a guardare l’elenco. Accanto a Casablanca Hedda aveva scritto: “Un caso disperato”.
— Ciao — disse Hedda dalla soglia. — Sono di nuovo Tess Truehart. — E restò lì, a disagio.
— Cosa c’è? — chiesi, alzandomi. — Mayer è tornato?
— Lei non è nel 1950. — Gli occhi di Hedda evitarono i miei. — È a Sunset Boulevard. L’ho vista.
— In Sunset Boulevard?
— No. Sullo scivolo.
Non in una linea temporale parallela. O in una terra fatata dove la gente penetra nello schermo e si infila nei film. Qui. Sullo scivolo. — Le hai parlato?
Lei scosse la testa. — Era mattina. L’ora di punta. Stavo tornando dal mio colloquio con Mayer e l’ho appena intravista con la coda dell’occhio. Lo sai com’è l’ora di punta. Ho cercato di raggiungerla in mezzo alla folla, ma quando sono riuscita a farmi strada lei era già scesa.
— Perché avrebbe dovuto fermarsi a Sunset Boulevard? L’hai vista scendere?
— Te l’ho detto, l’ho solo intravista tra la folla. Si trascinava dietro degli apparecchi. Ma deve essere scesa a Sunset Boulevard. È l’unica stazione alla quale ci siamo fermati.
— Hai detto che aveva degli apparecchi. Che tipo di apparecchi?
— Non lo so. Apparecchi. Te l’ho detto, l’ho…
— L’hai solo intravista. E sei sicura che fosse lei?
Hedda annuì. — Non volevo dirtelo, ma è difficile scrollarsi di dosso la parte di Betsy Booth. Ed è difficile odiare Alis, dopo tutto quello che ha fatto. — Gesticolò in direzione delle proprie immagini riflesse sugli schermi. — Guardami. Libera dalla chocha , libera dal klieg. — Si girò a fissarmi. — Ho sempre voluto essere nei film, e adesso ci sono.
Ripartì in corridoio.
— Hedda, aspetta — dissi, e me ne pentii subito. Avevo paura di incontrare, quando si fosse voltata, un viso colmo di speranza, e occhi gonfi di lacrime.
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