Connie Willis - Strani occhi

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Se avete una bella faccia, o un bel paio di gambe, o un seno rifatto, potete entrare nel grande show del 2000. Se avete umiltà e pazienza potete prestare la vostra bocca — o qualunque altra parte del corpo — agli attori famosi del passato, e partecipare al remke elettronico di un capolavoro del cinema. Ma attenti! A Hollywood non interessano gli attori vivi. La loro specialità sono i fantasmi elettronici e i corpi caldi sono in pericolo…
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1996.

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Ma quella era Hedda, che sa tutto.

— Come ti chiami? — chiesi. — Ho soltanto il tuo accesso, e ti ho sempre chiamato solo Hedda.

Lei mi sorrise con molta consapevolezza e molta tristezza. Emma Thompson in Quel che resta del giorno. — Mi piace Hedda — disse.

Movimento della macchina da presa fino a un campo medio: l’insegna della stazione LAIT. Scritte sullo schermo: LOS ANGELES ISTANTRANSITO a grandi lettere rosa vivo, SUNSET BOULEVARD in giallo.

Infilai in tasca il disco coi numeri di Alis e presi lo scivolo. Non c’era nessuno, a parte un gruppetto di turi con le orecchie da topo, una Marilyn molto fatta, ed Elizabeth Taylor, Sidney Poitier, Mary Pickford, Harrison Ford che emergevano l’uno dopo l’altro dalla nebbia dorata dell’ILMGM. Tenni d’occhio l’insegna, in attesa di Sunset Boulevard. Chissà che diavolo ci faceva Alis. Lì non c’era proprio niente, a parte la vecchia superstrada.

La Marilyn mi si avvicinò, traballante. Il suo vestito bianco col top era sporco, macchiato, e dietro un orecchio aveva un’impronta di rossetto.

— Vuoi farti una scopatina? — chiese. Non guardava me, ma Harrison Ford sullo schermo alle mie spalle.

— No, grazie — risposi.

— Okay — disse lei, docile. — E tu che ne dici? — Non aspettò che io o Harrison Ford le rispondessimo. Se ne andò e poi tornò indietro. — Sei il dirigente di uno studio?

— No, mi spiace.

— Io voglio essere nei film — disse lei, e ripartì.

Tenni gli occhi puntati sullo schermo. Ridiventò argenteo per un secondo, fra un trailer e l’altro, e io vidi me stesso: pulito, responsabile, sobrio. Jimmy Stewart in Mr. Smith va a Washington. Logico che Marilyn mi avesse scambiato per un dirigente.

Sull’insegna luminosa apparve la scritta SUNSET BOULEVARD e scesi. La zona non era cambiata. Continuava a non esserci niente, nemmeno i lampioni. La superstrada abbandonata incombeva scura al chiarore delle stelle. Vedevo in distanza, sotto uno degli svincoli, un falò.

Impossibile che Alis fosse lì. Doveva avere visto Hedda ed essere scesa per impedirle di scoprire quale fosse la sua vera destinazione. E qual era?

Era apparsa un’altra luce, un sottile fascio bianco che avanzava verso di me. Probabilmente svitati in cerca di vittime. Tornai allo scivolo.

La Marilyn era ancora lì. Seduta in mezzo al pavimento a gambe divaricate, frugava sul palmo della mano tra le pillole in cerca di chocha , klieg, o che altro. Le uniche attrezzature che servano a una battitrice libera, pensai, il che significava che qualunque cosa Alis stesse facendo, per lo meno non batteva; e mi resi conto di essermi sentito molto sollevato da quando Hedda mi aveva raccontato di avere visto Alis con quegli apparecchi, anche se non sapevo dove fosse. Se non altro, non si era messa a battere.

Erano le due e mezzo di notte. Hedda aveva visto Alis all’ora di punta; mancavano ancora quattro ore. Ammesso che Alis si recasse tutti i giorni allo stesso posto. Ammesso che non stesse semplicemente traslocando coi suoi bagagli. Ma Hedda non aveva parlato di bagagli. Apparecchi, aveva detto. E non poteva trattarsi di computer e monitor perché Hedda li avrebbe riconosciuti, e in ogni caso era roba leggera. Hedda aveva parlato di “trascinarsi dietro”. Cosa? Una macchina del tempo?

La Marilyn si era alzata, spargendo capsule in giro, e, superata la striscia gialla, si stava dirigendo verso la parete sulla quale sfilava ancora la cavalcata di star dell’ILMGM.

— No! — strillai, e l’afferrai per il braccio, a una trentina di centimetri dalla parete.

Lei mi guardò. Aveva le pupille completamente dilatate. — È la mia fermata. Devo scendere.

— Hai sbagliato strada, Corrigan. — La feci ruotare su se stessa, verso l’uscita. L’insegna diceva BEVERLY HILLS, e come destinazione della Marilyn non mi pareva molto probabile. — Dove volevi scendere?

Lei scrollò via la mia mano, si girò di nuovo verso lo schermo.

— L’uscita è di là. — Puntai l’indice.

Lei scosse la testa e indicò Fred Astaire che stava emergendo dalla nebbia. — Voglio passare da lì — disse, e crollò a sedere. La gonna bianca si allargò a cerchio. Lo schermo diventò argenteo, rifletté la forma seduta della ragazza che stava tentando di pescare su un palmo vuoto; poi ricomparve la nebbia dorata. L’inizio dei promo dell’ILMGM.

Fissai la parete, che non sembrava una parete, o uno specchio. Sembrava quel che era, una nebbia di elettroni, un velo disteso sul vuoto, e per un minuto tutto mi parve assolutamente possibile. Per un minuto pensai: Alis non è scesa a Sunset Boulevard. Non è mai scesa dallo scivolo. Ha attraversato lo schermo, come Mia Farrow, come Buster Keaton, ed è arrivata nel passato.

Quasi potevo vederla in gonna nera e giubbetto verde e guanti. Scompariva nella nebbia dorata ed emergeva su un Hollywood Boulevard pieno di automobili e di palme e di sale prova con le pareti a specchio.

— Tutto è possibile — ruggì la voce fuori campo.

La Marilyn era di nuovo in piedi e si dirigeva verso la parete di fronte a me.

— Non da quella parte — dissi, e schizzai avanti.

Buon per lei che quella volta non si era avviata verso uno degli schermi. Non ce l’avrei mai fatta. Quando la raggiunsi stava picchiando con entrambi i pugni sulla parete.

— Lasciami scendere! — urlò. — È la mia fermata!

— L’uscita è da questa parte — le dissi, e cercai di strattonarla via, ma doveva avere in corpo roba micidiale. Il suo braccio era ferro.

— Devo scendere qui. — Si mise a picchiare coi palmi delle mani. — Dov’è la porta?

— La porta è di là. — Mi chiesi se anch’io fossi stato in quelle condizioni, la sera che Alis mi aveva riportato a casa da Burbank. — Di qui non si può scendere.

— Lei lo ha fatto — disse la Marilyn.

Mi girai a guardare la parete in fondo, poi di nuovo la ragazza. — Chi lo ha fatto?

— “Lei”. È passata diritta attraverso la porta. L’ho vista. — E la Marilyn mi vomitò in faccia.

CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 12: La morale. Un personaggio asserisce l’ovvio, e tutti afferrano l’antifona.

VEDERE: Il mago di Oz , L’uomo dei sogni , Love Story , Ciao Pussycat.

Feci scendere la Marilyn a Wilshire e la portai al pronto soccorso. A quel punto si era quasi svuotata del tutto lo stomaco. Restai un po’ per assicurarmi che si facesse ricoverare.

— Sei sicuro di avere il tempo di farlo? — mi chiese. Adesso non somigliava poi troppo a Marilyn. Sembrava di più Jodie Foster in Taxi Driver.

— Sono sicuro. — Avevo tutto il tempo che volevo, adesso che sapevo dove fosse Alis.

Mentre lei riempiva moduli, io chiamai Vincent. — Ho una domanda — gli dissi senza preamboli. — E se uno prendesse un fotogramma e lo sostituisse con un fotogramma identico? Così si riuscirebbe a scavalcare i controlli del cavo?

— Un fotogramma identico? Che senso avrebbe?

— Sarebbe possibile?

— Suppongo di sì — rispose Vincent. — È per Mayer?

— Già. E se immettessi una nuova immagine che corrispondesse alla vecchia? I controlli se ne accorgerebbero?

— Corrispondere in che senso?

— Un’immagine diversa che sia la stessa.

— Sei fatto — disse Vincent, e chiuse.

Non importava. Sapevo già che i programmi di controllo non erano in grado di percepire la differenza. La cosa avrebbe richiesto troppa memoria. E, come aveva detto Vincent, che senso aveva sostituire un’immagine con un’altra perfettamente identica?

Aspettai che Marilyn fosse a letto, sotto una fleboclisi di ridigaine, poi tornai allo scivolo. Dopo LaBrea la stanza rimase completamente deserta, ma solo alle tre e mezzo riuscii a trovare la porta di servizio della sezione chiusa, e impiegai fino alle cinque passate per aprirla.

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