Per un po’ mi preoccupai all’idea che Alis l’avesse sbarrata dall’interno, ed effettivamente lo aveva fatto, ma senza volerlo. Un cavo a fibre ottiche era appoggiato alla porta, però dopo che ebbi forzato la serratura mi bastò spingere.
Lei era voltata verso la parete a schermo, che a quell’ora avrebbe dovuto essere spenta, solo che non lo era. Al centro dello schermo, Peter Lawford e June Allyson stavano dando una dimostrazione del varsity drag in una palestra piena zeppa di studenti universitari in abiti da sera e smoking. June portava un abito rosa e scarpe rosa con tacchi alti e pompon, come Alis. I capelli di tutte e due erano tagliati alla paggio.
Alis aveva sistemato il digitrasparente sopra la sua custodia. Accanto, sul pavimento, c’erano il miscelatore e il pixar. Il cavo a fibre ottiche correva lungo la striscia gialla, passava davanti alla porta e arrivava all’alimentazione dello scivolo. Spinsi via il cavo dalla porta, ma piano, per non scollegarlo, e socchiusi la porta quel tanto da poter vedere. Poi rimasi lì, nascosto a metà sulla soglia, a guardare Alis.
— Giù sulle calcagna — spiegò Peter Lawford — su in punta di piedi — ed eseguì un passo triplo. Alis, armata di telecomando, corse alla fine della canzone e si fermò all’inizio del ballo. Restò a guardare attentissima, contando i passi. Tornò indietro alla fine della canzone. Premette un pulsante e tutti si immobilizzarono a metà di un passo.
Veloce, con quelle stupide scarpe rosa a tacco alto raggiunse il retro dello scivolo, lontano dallo schermo, e premette il pulsante. Peter Lawford cantò: — Ecco come si fa.
Alis depositò il telecomando sul pavimento. Il suo vestito a gonna lunga frusciò quando lei si chinò. Poi, di corsa, tornò al segno che aveva tracciato sul pavimento. In piedi, oscurava completamente June Allyson, tranne che per una mano e per un minuscolo lembo della gonna rosa. Aspettò il suo momento.
Che arrivò. Alis si chinò sulle calcagna, si rialzò in punta di piedi, e si lanciò in un charleston. Alle sue spalle, con quel particolare angolo, June era come una gemella, un’ombra. Mi spostai nella posizione giusta per poterla vedere con lo stesso angolo del digitrasparente. June Allyson scomparve, restò soltanto Alis.
Mi ero aspettato che June Allyson venisse cancellata dallo schermo come era stato fatto con la principessa Leia per la turi grassa a È Nata Una Stella, ma Alis non stava girando un video per i parenti, non stava nemmeno tentando di proiettare la propria immagine sullo schermo. Stava semplicemente provando. Aveva collegato il digitrasparente al cavo a fibre ottiche tramite il processore perché era così che le avevano insegnato a usarlo sul lavoro. Dal punto in cui mi trovavo potevo vedere che la spia della registrazione era spenta.
Mi rintanai di nuovo sulla soglia. Alis era più alta di June Allyson, e la stoffa del suo vestito era di un rosa più luminoso di quello di June, ma l’immagine che il digitrasparente ritrasmetteva al cavo era la versione corretta, con colore e illuminazione e messa a fuoco regolati al punto giusto. E in alcuni di quei numeri di ballo, provati per ore e ore nella sezione chiusa al pubblico dello scivolo, eseguiti una e dieci e cento volte, l’immagine corretta era stata talmente simile all’immagine originale che i meccanismi di controllo non se n’erano accorti, talmente identica che l’immagine di Alis aveva scavalcato tutte le protezioni del sistema per arrivare direttamente alla fonte delle trasmissioni via cavo. E Alis era riuscita a fare l’impossibile.
Fece una piroetta, si fermò, tornò al telecomando con le sue scarpe a pompon, diede l’indietro veloce fino a metà del numero, appena prima della piroetta, e mise il fermo immagine. Lanciò un’occhiata all’orologio del digitrasparente, poi premette un pulsante e corse al segno sul pavimento.
Le restava ancora mezz’ora al massimo, dopo di che avrebbe dovuto scollegare le sue apparecchiature, riportarle a Hollywood Boulevard, ricollegarle e aprire bottega. Non avrei dovuto interromperla. Potevo farle vedere il mio disco un’altra volta, e avevo scoperto quello che volevo sapere. Avrei dovuto chiudere la porta e lasciarla alle sue prove. Ma non lo feci. Restai lì, appoggiato allo stipite, a guardarla ballare.
Ripeté altre tre volte la parte centrale del numero, rendendo sempre più fluida la piroetta, poi tornò indietro alla fine della canzone e rifece tutto da capo. Il suo viso era attento, intenso, come lo era stato quella sera mentre guardava il continental, ma non possedeva l’estasi deliziata, il rapito abbandono della beguine.
Mi chiesi se fosse perché stava ancora imparando il numero, o se invece sarebbe stato sempre così. Il sorriso che June Allyson rivolgeva a Peter Lawford era soddisfatto, non gioioso, e il numero in sé del varsity drag era appena così così. Non era certo Cole Porter.
E in quel momento, guardandola ripetere pazientemente, all’infinito, gli stessi passi, come doveva avere fatto Fred, tutto solo in una sala prove ancora prima che iniziassero le riprese del film, capii di essermi sbagliato su Alis.
Avevo pensato che, come Ruby Keeler e l’ILMGM, credesse che tutto sia possibile. Avevo tentato di dirle che non lo è, che il semplice desiderare una cosa non significa poterla ottenere. Ma lei lo sapeva già, molto prima di conoscere me, molto prima di arrivare a Hollywood. Fred Astaire era morto l’anno della sua nascita, e lei non avrebbe mai, mai, mai potuto, nonostante la realtà virtuale e la computer grafica e i copyright, ballare la beguine con lui.
E tutto quello, i costumi e i corsi universitari e le prove dei numeri, erano semplicemente un sostituto, qualcosa da fare al posto della realtà. Come combattere nella Resistenza. A paragone di ciò che Alis era stata tanto sfortunata da desiderare, scavarsi una piccola nicchia in una Hollywood popolata di marionette e magnaccia doveva esserle parso un gioco da ragazzi.
Peter Lawford prese la mano di June Allyson, e Alis sbagliò nel girarsi e barcollò malamente. Andò a raccogliere il telecomando per tornare indietro, lanciò un’occhiata all’insegna della stazione, e mi vide. Restò a guardarmi per un lungo momento, poi si spostò in avanti e spense il digitrasparente.
— Non… — le dissi.
— Non cosa? — Lei si mise a scollegare le macchine. Infilò un camice bianco sopra il vestito rosa. — Non perdere tempo a cercare un maestro di ballo perché non ne esistono più? — Abbottonò il camice, si spostò a scollegare il cavo. — Come puoi vedere, me ne sono già resa conto. A Hollywood nessuno sa ballare. E se qualcuno lo sa, è fatto di chocha per cercare di dimenticare. — Cominciò ad arrotolare il cavo. — Tu sei fatto?
Alzò gli occhi sull’insegna della stazione, poi mise il cavo arrotolato sopra il digitrasparente e si inginocchiò davanti al miscelatore, nel fruscio della gonna. — Perché se sei fatto non ho il tempo di accompagnarti a casa e impedirti di cadere nella parete dello scivolo e frenare le tue avance. Devo riportare indietro questa roba. — Sistemò il pixar nella custodia e la chiuse.
— Non sono fatto di droga — dissi. — E non sono ubriaco. Ti sto cercando da sei settimane.
Alis sollevò il digitrasparente, lo mise nella custodia, cominciò a riporre i cavi elettrici. — Perché? Per potermi convincere che non sono Ruby Keeler? Che il musical è morto e che i computer possono fare meglio qualunque cosa io sappia fare? Benissimo. Ne sono convinta.
Sedette sulla custodia e slacciò le fibbie delle scarpe rosa. — Hai vinto. Non posso ballare nei film. — Si girò a guardare la parete a specchio, con una scarpa in mano. — È impossibile.
— No — le risposi. — Non sono venuto a dirti questo.
Lei infilò le scarpe in una tasca del camice. — Allora cosa sei venuto a dirmi? Che rivuoi indietro il tuo elenco di accessi? Benissimo. — Infilò i piedi in un paio di mocassini e si alzò. — Tanto ho già imparato quasi tutti i numeri da ballerina di fila e da prima ballerina, e continuare da sola non mi porterà da nessuna parte. Dovrò trovarmi un partner.
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