Robert Heinlein - Fanteria dello spazio

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Fanteria dello spazio: краткое содержание, описание и аннотация

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Dalle prime invasioni di H. G. Wells, il tema della guerra contro i «mostri» di mondi lontani è stato spesso trattato dagli scrittori di fantascienza. Ma crediamo che questo romanzo sia senza precedenti e meriti di essere segnalato particolarmente ai lettori. Si tratta a nostro parere di una delle opere più riuscite e originali nella vastissima produzione di Robert Heinlein. La storia è raccontata in prima persona e in un linguaggio secco e pittoresco da un soldato dell’esercito terrestre, un ragazzo che scappa di casa per arruolarsi nella fanteria dello spazio (regina, a quanto pare, anche delle battaglie cosmiche), partecipa alle operazioni belliche nella Galassia, e «fa carriera» fino a meritarsi i galloni da ufficiale… Ma ciò che costituisce il mordente del libro e lo straordinario verismo, la «fedeltà» quasi cinematografica delle esperienze militari del protagonista. I sergenti cattivi, le marce le esercitazioni a fuoco, la terribile disciplina, la solidarietà fra commilitoni sono cose che molti lettori conosceranno per averle provate di persona. Ma qui anche la «tuta potenziata» l’arma tuttofare della fanteria spaziale, anche i lanci dall’astronave, i rastrellamenti a «saltamontone», le offensive contro i «pelleossa» e i «ragni» dei pianeti nemici sono descritti con una bravura da grande documentarista. Ed è l’apparenza realistica di queste avventure di guerra a renderle più persuasive e soprattutto più drammatiche e avvincenti.
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1960.

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4

Allora il Signore disse a Gedeone: “Troppa gente è con te […] Perciò dà quest’ordine a tutto il popolo: chiunque è timoroso e ha paura, si ritiri e torni pure indietro”. Se ne tornarono così ventiduemila e ne rimasero soltanto diecimila. Ma il Signore disse di nuovo a Gedeone: “Vi è ancora troppa gente; falli discendere presso le acque; laggiù li sceglierò” […] Fatto dunque discendere il popolo alle acque, il Signore disse a Gedeone: “Metti da una parte chiunque lambirà l’acqua nella sua mano con la lingua, come i cani, e quanti si piegheranno sulle ginocchia per bere mettili dall’altra”. Il numero di coloro che lambirono l’acqua portando la mano alla bocca fu di trecento uomini; tutti gli altri avevano bevuto piegando le ginocchia […]

E il Signore disse a Gedeone: “Con quei trecento io vi libererò […] tutto il resto del popolo ritorni pure alle sue case”.

Giudici, 7,2-7

Due settimane dopo ci tolsero le brande. Vale a dire che ci toccò la gioia di piegarle, trasportarle a spalla per sei chilometri e sistemarle in un magazzino. Ma ormai la cosa non aveva più molta importanza. La terra nuda ci sembrava molto più calda e soffice, specialmente quando l’adunata squillava nel cuore della notte, cosa che capitava mediamente tre volte alla settimana, e dovevamo saltare in piedi per giocare ai soldati. In genere, dopo uno di quegli assurdi esercizi, riuscivo a addormentarmi di colpo come un sasso. Avevo imparato a dormire ovunque, in qualsiasi momento, seduto, in piedi, perfino marciando. Potevo dormire addirittura durante la rivista, irrigidito sull’attenti, e godermi la fanfara senza svegliarmi. Mi svegliavo sull’istante, però, appena veniva urlato un comando. Al campo Arthur Currie feci una scoperta molto importante: la felicità consiste nel dormire a sufficienza. Tutto qui. Molti ricconi infelici che conosco devono prendere sonniferi per dormire. Quelli della Fanteria spaziale mobile non ne hanno bisogno. Date a un fante una cuccetta e il tempo di infilarcisi dentro, e lui sarà felice come un verme in una mela. Addormentato.

In teoria, ci erano concesse otto ore di riposo per notte, e circa un’ora e mezza di libertà dopo il rancio della sera. In pratica, le ore del riposo erano soggette agli allarmi, al servizio notturno, alle marce, alle cause di forza maggiore e a tutti i capricci di quelli che stavano sopra di noi. Le serate, invece, se non si doveva far parte di qualche squadra o scontare una punizione per infrazioni minori, erano dedicate in genere a lustrare le scarpe, fare il bucato, tagliarsi i capelli (alcuni di noi divennero abbastanza bravi come barbieri, ma una bella pelata a zero era la cosa migliore, e quella sa farvela chiunque), per non parlare delle migliaia di altre inezie che riguardavano l’abbigliamento, la cura della persona e le infinite pretese dei sergenti. Per esempio, avevamo imparato a rispondere “lavato!” all’appello del mattino, intendendo con ciò che ci si era lavati almeno una volta dall’ultima sveglia. Si poteva mentire al riguardo e passarla liscia (a me capitò un paio di volte), ma se c’era qualcuno della compagnia che ricorreva a quel trucco a dispetto dei segni evidenti che testimoniavano di come recentemente non si fosse lavato veniva strofinato con spazzole dure e sapone per pavimenti dai suoi compagni di squadra con un caporale istruttore che sorvegliava e dava utili suggerimenti.

Però, se uno non aveva cose più urgenti da fare, dopo cena poteva scrivere una lettera, oziare, chiacchierare, discutere della miriade di carenze mentali e morali dei sergenti e, quello che soprattutto ci piaceva, parlare delle nostre colleghe. (Avevamo finito per convincerci che non esistessero affatto, che fossero creature mitologiche, partorite da fantasie troppo accese. Un ragazzo della nostra compagnia affermò di avere visto una ragazza, al Comando di reggimento. Fu dichiarato all’unanimità bugiardo e inattendibile.) Oppure si poteva giocare a carte, cosa che non avevo mai fatto, e imparare a proprie spese a non barare.

Disponendo poi di venti minuti proprio tutti per sé, si poteva sempre dormire. E questa era la soluzione che veniva scelta più spesso: eravamo sempre in arretrato di parecchie settimane di sonno.

Forse vi avrò dato l’impressione che la vita al campo fosse resa più dura del necessario. Non è esatto. Era semplicemente resa quanto più dura possibile, e di proposito.

Era ferma convinzione di ogni recluta che si trattasse di pura malvagità, di sadismo calcolato, del diabolico piacere che idioti senza cervello traevano dal procurare sofferenza ad altre persone.

Niente affatto. Tutto era troppo pianificato, troppo intellettualistico, troppo efficiente e organizzato troppo impersonalmente per rappresentare un caso di crudeltà fine a se stessa. Era come la chirurgia, e aveva scopi altrettanto obiettivi e spassionati. Può darsi che qualche istruttore se la sia goduta a bistrattarci, però non mi risulta. So per certo, invece (ora), che gli ufficiali psicoanalisti facevano il possibile per estirpare le erbacce, quando sceglievano gli istruttori. Cercavano di selezionare uomini abili, capaci di rendere le cose il più difficili possibile per una recluta, ma si trattava di un semplice obiettivo. Un bullo è troppo stupido, troppo poco obiettivo per essere efficiente. Inoltre si corre il rischio che possa stancarsi del gioco e battere la fiacca. Con questo, non nego che tra gli istruttori ci siano stati anche dei gradassi, ma in fondo anche molti chirurghi (e non dei peggiori) possono provare un certo gusto a maneggiare il bisturi e a vedere sgorgare il sangue.

Parlo di chirurghi perché, in realtà, di questo si trattava: di chirurgia. Lo scopo immediato dell’addestramento era quello di eliminare, allontanandole dall’arma, le reclute troppo deboli o infantili per diventare veri soldati. E in effetti questo obiettivo veniva raggiunto, e su larga scala. (Per poco non buttarono fuori anche me.) In sole sei settimane la nostra compagnia si ridusse a un semplice squadrone. Alcuni furono allontanati senza infamia e senza lode, e autorizzati, se ci tenevano, a completare \a ferma nei servizi sedentari. Altri vennero espulsi per cattiva condotta, scarso rendimento o ragioni mediche.

Di solito, il motivo dell’allontanamento restava segreto, a meno che la recluta stessa non volesse dirlo. Molti, invece, dichiaravano a voce alta di averne abbastanza, davano le dimissioni e si giocavano per sempre il loro diritto al voto. Altri, specialmente i più anziani, non ce la facevano a sopportare lo sforzo fisico, per quanto ce la mettessero tutta.

Mi ricordo un tale, un certo Carruthers, un tipo simpatico sui trentacinque anni. Lo portarono via in barella, mentre continuava a protestare debolmente che non era giusto, che lui aveva fatto del suo meglio e sarebbe tornato.

Faceva pena, perché era simpatico a tutti e la buona volontà non gli mancava. Così guardammo tutti da un’altra parte, convinti di non rivederlo mai più poiché l’avrebbero certo rimandato tra i civili con il suo bravo certificato medico. Invece lo rividi, dopo molto tempo. Aveva rifiutato il congedo (si può, quando è per ragioni mediche), e faceva il cuoco su un’astronave-tradotta. Si ricordava di me, e volle parlare dei vecchi tempi, orgoglioso di essere stato un allievo del campo Arthur Currie quanto lo era mio padre del suo accento di Harvard. Si riteneva un po’ meglio di quelli che mediamente entravano in Marina. Forse lo era davvero.

Tornando a noi, più importante ancora di eliminare il grasso inutile e risparmiare al governo la spesa per l’addestramento di individui inetti, era la massima sicurezza, umanamente possibile, che nessun fante spaziale entrasse in una capsula di lancio senza essere più che preparato al combattimento, cioè fisicamente adatto, deciso, disciplinato e perfettamente addestrato. Una selezione meno accurata sarebbe stata sleale verso la Federazione, verso i compagni di squadra e soprattutto verso il militare stesso.

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