Robert Heinlein - Fanteria dello spazio

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Dalle prime invasioni di H. G. Wells, il tema della guerra contro i «mostri» di mondi lontani è stato spesso trattato dagli scrittori di fantascienza. Ma crediamo che questo romanzo sia senza precedenti e meriti di essere segnalato particolarmente ai lettori. Si tratta a nostro parere di una delle opere più riuscite e originali nella vastissima produzione di Robert Heinlein. La storia è raccontata in prima persona e in un linguaggio secco e pittoresco da un soldato dell’esercito terrestre, un ragazzo che scappa di casa per arruolarsi nella fanteria dello spazio (regina, a quanto pare, anche delle battaglie cosmiche), partecipa alle operazioni belliche nella Galassia, e «fa carriera» fino a meritarsi i galloni da ufficiale… Ma ciò che costituisce il mordente del libro e lo straordinario verismo, la «fedeltà» quasi cinematografica delle esperienze militari del protagonista. I sergenti cattivi, le marce le esercitazioni a fuoco, la terribile disciplina, la solidarietà fra commilitoni sono cose che molti lettori conosceranno per averle provate di persona. Ma qui anche la «tuta potenziata» l’arma tuttofare della fanteria spaziale, anche i lanci dall’astronave, i rastrellamenti a «saltamontone», le offensive contro i «pelleossa» e i «ragni» dei pianeti nemici sono descritti con una bravura da grande documentarista. Ed è l’apparenza realistica di queste avventure di guerra a renderle più persuasive e soprattutto più drammatiche e avvincenti.
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1960.

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Invece li lasciò attaccare insieme. Meyer lo aggredì all’improvviso, con l’intenzione di colpirlo al corpo e gettarlo a terra, penso io, mentre Heinrich sarebbe intervenuto dopo, lavorandosi il caduto, magari colpendolo con lo stivale. Così, almeno, si profilava la cosa.

Ed ecco, invece, quello che credo di avere visto. Meyer non portò a segno il suo colpo al corpo. Il sergente Zim si girò di scatto per affrontarlo, allungando intanto un calcio all’indietro che raggiunse Heinrich in pieno ventre… L’istante dopo, Meyer veniva catapultato in aria da un potente allungo di Zim.

Quello che posso assicurarvi è che a pochi istanti dall’inizio dell’incontro c’erano due giovani tedeschi che riposavano tranquilli al suolo, quasi piedi contro piedi, uno a faccia in su e uno a faccia in giù, mentre Zim stava ritto accanto a loro, senza nemmeno ansimare. — Jones — chiamò. — Ah, già, Jones non c’è. Mahmud! Porta un secchio d’acqua, poi rimettili in fila con gli altri. Chi ha preso il mio stuzzicadenti?

Pochi minuti dopo i due erano svegli, bagnati fradici, e allineati con gli altri. Zim ci guardò e s’informò cortesemente: — C’è qualcun altro? O dobbiamo passare alle esercitazioni?

Pensavo che nessun altro si sarebbe fatto avanti, e forse lo pensava anche Zim. Ma dal fondo della fila, a sinistra, dove si allineavano i più bassi di statura, un ragazzo uscì dai ranghi e si fece avanti. Zim lo squadrò dall’alto in basso. — Tu da solo? Non vuoi sceglierti un socio?

— Da solo, signor sergente.

— Come vuoi. Nome.

— Shujumi, signore.

Zim spalancò gli occhi. — Qualche parentela con il colonnello Shujumi?

— Mi onoro di essere suo figlio, signore.

— Senti, senti! Molto bene. Cintura nera?

— Signornò. Non ancora.

— Hai fatto bene a dirmelo. Bene, Shujumi, dobbiamo attenerci alle regole o chiamo direttamente l’ambulanza?

— Come preferisce, signore. Ma penso, se posso esprimere un parere, che attenersi alle regole sia più prudente.

— Non capisco in che senso, ma sono d’accordo con te. — Zim gettò via il bastone, poi i due indietreggiarono, si misero di fronte e s’inchinarono.

Presero a girare in tondo, uno di fronte all’altro e in posizione raccolta, facendo qualche finta con le mani. Somigliavano, nel complesso, a due galli da combattimento.

All’improvviso si toccarono… il piccoletto era a terra e il sergente Zim stava volando al di sopra della sua testa. Ma non atterrò con il tonfo sordo e paralizzante che aveva tramortito Meyer. Rotolò e fu subito in piedi. Lo stesso fece Shujumi. Furono di nuovo l’uno di fronte all’altro. — Banzai! - gridò Zim e sorrise.

Arigatò - rispose Shujumi, e sorrise di rimando.

Si toccarono ancora, quasi senza fermarsi, e pensai che il sergente si facesse un altro volo. Invece no: scivolò in avanti, ci fu un groviglio di gambe e braccia, e quando l’agitazione cessò, vidi che Zim si stava accostando il piede sinistro di Shujumi all’orecchio destro.

Con la mano libera, Shujumi batté sul terreno. Subito Zim lo lasciò andare. Si fecero un inchino.

— Ancora una volta, signore?

— Mi spiace, no. Abbiamo ancora molto da fare. Un altro giorno. Per il divertimento… e l’onore. Forse avrei dovuto dirti che è stato il tuo onorevole padre a addestrarmi.

— Proprio come avevo immaginato, signore. Al piacere di un altro incontro.

Zim gli batté sulla spalla. — Torna in fila, soldato. C’pagnia, at-tenti!

Poi, per venti minuti, ce la spassammo con una serie di esercizi che mi lasciarono grondante di sudore quanto prima ero illividito dal freddo. Zim conduceva gli esercizi, eseguendoli con noi e impartendo ordini a gran voce. A guardarlo, non aveva una piega fuori posto, e quando terminammo non aveva nemmeno il fiatone. Dopo quel mattino, non guidò più gli esercizi (non lo vedemmo mai più prima di colazione: un graduato beneficia di alcuni vantaggi) ma quel mattino lo fece, e al termine, quando fummo tutti sfiniti, ci condusse al trotto verso le tende, urlando come un matto per tutto il percorso: — Pas-so! Di-corsa! Sbrigatevi, marmotte.

Trottavamo sempre e dappertutto, al campo Arthur Currie. Non ho mai saputo chi fosse questo Currie, ma doveva essere stato un maratoneta.

Breckinridge era già nella tenda che fungeva da mensa, con il polso ingessato. Lo sentii dire: — È una roba da nulla, oggi non ho fatto sul serio con quello. Vedrete la prossima volta… Lo sistemerò io…

Avevo i miei dubbi. Shujumi, forse, ma quel bestione lì… Non era nemmeno in grado di capire quanto era stato surclassato. Zim mi era risultato antipatico fin dal primo istante, ma almeno aveva stile.

La colazione era ottima, i pasti in genere erano di notevole qualità, molto diversi dalle brodaglie che ci rifilavano a scuola. E se uno voleva buttarsi sul piatto e ingozzarsi mangiando con le mani, nessuno aveva da ridire, per fortuna, visto che i pasti erano praticamente l’unico istante in cui ti lasciavano respirare senza sbraitarti dietro.

Il menù della colazione non aveva niente a che fare con quello che ero solito mangiare a casa. Se mamma avesse visto come i civili che ci servivano sbattevano il cibo da tutte le parti sarebbe impallidita e si sarebbe ritirata in camera sua. Il cibo, tuttavia, era caldo e abbondante e la cucina, per quanto semplice, non era male. Mangiai il quadruplo del solito e ingurgitai tazze su tazze di caffè bollente, con zucchero e panna. Del resto avrei divorato una balena senza nemmeno perdere tempo a levarle la pelle.

Jenkins arrivò con il caporale Bronski alle calcagna proprio mentre io attaccavo il secondo piatto. Si fermarono un attimo vicino al tavolo di Zim, che mangiava da solo, poi Jenkins si lasciò cadere su uno sgabello libero accanto al mio. Sembrava che stesse parecchio male, era pallido, esausto, e respirava a fatica: — Ti verso un po’ di caffè — gli dissi.

Scosse la testa.

— Mangia, è meglio — insistetti. — Le uova strapazzate vanno giù come niente.

— Non posso mangiare. Quel delinquente, quel maledetto! — E prese a maledire Zim con voce monotona e incolore. — Gli ho chiesto soltanto di lasciarmi tornare in branda e di saltare la colazione. Bronski non ha voluto, ha detto che dovevo dirlo al comandante di compagnia. Sono andato da lui, gliel’ho chiesto dicendo che mi sentivo male. Dopo avermi toccato la fronte e sentito il polso mi ha detto che non potevo marcare visita fino alle nove. Non mi ha lasciato tornare alla mia tenda. Brutto disgraziato! Ma io una notte l’aspetto di fuori, vedrai.

Gli misi le uova strapazzate nel piatto e gli versai il caffè. Lui cominciò subito a mangiare. Zim si alzò da tavola mentre noi ancora mangiavamo, e si fermò al nostro tavolo.

— Jenkins?

— Eh? Signorsì.

— Alle nove precise marcherai visita e ti farai visitare dal medico.

Jenkins contrasse la mascella. Rispose lentamente: — Non ho bisogno di medicine, signore. Mi passerà.

— Nove precise. È un ordine. — E Zim se ne andò. Jenkins prese a inveire contro il sergente. Alla fine si calmò, ingoiò una forchettata di uova strapazzate e disse a voce più alta: — Non posso fare a meno di chiedermi che specie di madre ha potuto mettere al mondo un uomo simile. Mi piacerebbe proprio vederla, solo per curiosità. Credete che ce l’abbia, una madre?

Era una domanda retorica, ma esigeva una risposta. A capotavola, a diversi sgabelli di distanza da noi, sedeva un caporale istruttore. Aveva finito di mangiare e mentre fumava giocherellava con uno stuzzicadenti. Evidentemente aveva sentito. — Jenkins…

— Eh? Signore?

— Sei così poco informato sui sergenti?

— Ecco… sto imparando.

— Non hanno madri. Chiedilo a qualsiasi soldato semplice che abbia terminato il corso. — Soffiò il fumo verso di noi. — Si riproducono per cariocinesi, come tutti i microbi.

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