Isaac Asimov
Le correnti dello spacio
Il Terrestre giunse a una decisione. C’era arrivato lentamente, ma ora ormai irrevocabile. In origine era stata sua intenzione presentare un rapido rapporto alla sezione locale dell’Ufficio Spazio-Analitico Interstellare, e poi subito ritirarsi nello spazio. Viceversa lo avevano trattenuto. Quel posto era per lui ormai quasi come una prigione. Finì in fretta di bere il tè, guardò l’uomo che gli sedeva di fronte, e disse: «Io qui non ci rimango più.»
L’altro uomo giunse a una decisione. C’era arrivato lentamente, ma era ormai irrevocabile. Aveva bisogno di tempo, di assai più tempo. La risposta alle prime lettere era stata completamente negativa. Del resto se lo era aspettato. Era stata soltanto la prima mossa.
Comunque era certo che in attesa degli sviluppi futuri non poteva consentire che il Terrestre gli sfuggisse di mano. Accarezzò con le dita la verga nera nascosta nella tasca. Disse: «Lei non capisce la delicatezza del problema.»
Il Terrestre disse: «Che c’è di delicato nella distruzione di un pianeta? Io voglio che vengano diffusi via radio i particolari a tutto Sark, perché tutti sul pianeta li conoscano.»
«Non possiamo farlo. Sa bene che questo provocherebbe un panico spaventoso.»
Il Terrestre oppose una seconda obiezione. «Il rappresentante dell’U.S.I. non è ancora arrivato.»
«Lo so. Si stanno occupando delle necessarie procedure organizzative inerenti a questa crisi. Ancora un paio di giorni al massimo.»
«Ancora un paio di giorni? Mi risponde sempre la stessa cosa! Hanno dunque proprio tanto da fare da non riuscire a trovare neppure un momento libero? Se non hanno nemmeno visto i miei calcoli!»
«Io mi ero offerto di portar loro i suoi calcoli ma lei si è rifiutato di consegnarmeli.»
«E continuo a rifiutarmi. O loro vengono da me o io vado da loro.» Aggiunse con violenza: «Non penso che lei mi creda. Lei non crede che Florina sarà distrutta.»
«Io lo credo, invece.»
«No. Lo so che non mi crede. Lo capisco dalla sua faccia. Lei sta semplicemente cercando di temporeggiare. Lei non può capire la portata della mia scoperta. Lei non è uno Spazio-Analista. Non credo nemmeno che lei sia chi dice di essere. Chi è veramente?»
«Si sta scalciando per niente.»
«E si sorprende! Lei pensa semplicemente: poveraccio! Lo spazio lo ha reso pazzo. Perché mi crede pazzo, vero?»
«Sciocchezze!»
«Purtroppo è così. Per questo voglio parlare con quelli dell’U.S.I. Loro capiranno se sono pazzo o no.»
L’altro uomo ricordò la propria decisione. Disse: «Lei non sta bene. Voglio aiutarla.»
«Non mi aiuterà affatto» gridò il Terrestre al colmo dell’eccitazione «perché adesso io me ne vado. Può ammazzarmi se vuole, ma non oserà farlo, perché sa che altrimenti il sangue della popolazione di un intero pianeta ricadrebbe su di lei.»
Anche l’altro uomo cominciò a gridare per farsi sentire.
«Io non ho nessuna intenzione di ucciderla. Mi ascolti, non voglio ucciderla. Non è affatto necessario che la uccida.»
Il Terrestre disse: «Ma mi imprigionerà, mi sequestrerà qui dentro. È questo che sta pensando di fare, vero? E come si comporterà quando l’U.S.I. comincerà a cercarmi? Perché sa che quella gente attende da me relazioni sistematiche.»
«L’Ufficio sa che con me lei è al sicuro.»
«Davvero? Scommetto che ignorano persino che io abbia raggiunto il pianeta e credo che non abbiano nemmeno ricevuto il mio primo messaggio!» Il Terrestre si sentì a un tratto cogliere da vertigini, il corpo irrigidito.
L’altro uomo si alzò. Sentiva di non poter più tornare sulla propria decisione. Fece lentamente il giro del lungo tavolo, si avvicinò al Terrestre e gli disse con voce suadente, cavando di tasca la verga nera: «Agisco unicamente per il suo bene.»
Il Terrestre balbettò: «Quella è una sonda psichica» ma le parole gli uscirono dalla gola smozzicate, e quando tentò di alzarsi non riuscì quasi a muovere braccia e gambe.
Con i denti stretti da un irrigidimento simile al “rigor mortis”: «Mi ha drogato!» disse.
«Sì, è vero» convenne l’altro uomo. «Ora però mi ascolti bene; non intendo farle del male, ma è impossibile che possa comprendere tutta la delicatezza della questione finché sarà così eccitato e ansioso. Io voglio unicamente liberarla da questa angoscia che la opprime.»
Il Terrestre non era più in grado di parlare, immobilizzato sulla sedia riusciva soltanto a pensare confusamente: “Spazio Onnipotente, mi hanno drogato”. Voleva gridare, urlare, fuggire, ma sembrava che una mano misteriosa lo avesse inchiodato dov’era.
Frattanto l’altro uomo aveva raggiunto il Terrestre. Gli si fermò davanti e lo guardò. Il Terrestre alzò gli occhi verso di lui. Riusciva ancora a muovere le pupille.
La sonda psichica era un complesso automatico indipendente. Bastava introdurre l’ago leggermente alla base della fronte, tra i due occhi. Il Terrestre fissava affascinato e inorridito i movimenti dell’altro finché anche i suoi nervi ottici s’irrigidirono. Avvertì la puntura sottile mentre i minuscoli aguzzi scandagli sondavano attraverso la cute e la carne per stabilire il contatto con le suture delle ossa craniali.
Urlò sino a perdere la voce nel silenzio della propria mente. Gridò con disperazione: «Non capisce? È un pianeta abitato. Non si rende conto che non può assumersi la responsabilità di far perire centinaia di milioni di esseri viventi?»
Il Terrestre senti la sottile vibrazione contro il proprio cranio, poi anche questa scomparve L’oscurità s’infittì, cadde su di lui. Una parte di essa non si diradò mai più. Ci volle un anno perché alcuni isolati frammenti di tenebra si squarciassero.
Rik posò l’alimentatore e balzò in piedi. Si mise a urlare: «Ricordo!»
Gli altri lo guardarono e per un attimo il mormorio degli uomini seduti a colazione cessò. Numerosi occhi conversero su di lui; i volti erano tutti ugualmente puliti e sbarbati; ma quegli occhi non mostravano alcun vero interesse, solo l’attenzione riflessa che provoca ogni grido improvviso e inatteso.
Rik tornò a gridare: «Ricordo quello che facevo! Ricordo la mia occupazione!»
Qualcuno urlò: «Zitto!» E qualcun altro intimò: «Siedi!»
Rik tornò lentamente a sedere e prese tra le mani l’alimentatore, un congegno a forma di cucchiaio, dai bordi aguzzi, con minuscoli denti sporgenti dalla curva anteriore della ciotola, che riuniva pertanto in sé le funzioni di coltello, cucchiaio e forchetta. Per un operaio dell’opificio era abbastanza. Lo rigirò più volte, fissando, senza vederlo, il proprio numero impresso sul dorso del manico. Non aveva bisogno di vederlo. Lo conosceva a memoria. Anche gli altri avevano come lui numeri di matricola, ma gli altri avevano anche dei nomi. Lui no. Lo chiamavano Rik perché questo nel gergo degli opifici dove si lavorava il kyrt significava pressappoco “deficiente”. E spesso anche lo chiamavano “Rik il Matto”.
Forse adesso avrebbe seguitato a ricordare sempre di più. Era la prima volta dacché era giunto all’opificio che ricordava qualcosa di prima. Se fosse riuscito a pensare intensamente! Se si fosse sforzato di pensare tendendo tutta la sua volontà!
A un tratto non ebbe assolutamente più fame. Con gesto improvviso gettò l’alimentatore nel blocco gelatinoso di carne e di verdura che gli stava dinanzi, respinse il cibo lontano da sé e nascose gli occhi nel palmo delle mani, mentre con le dita si tormentava i capelli nel disperato tentativo di seguire la propria mente nell’abisso dal quale essa aveva estratto un’unica cosa… un oggetto fangoso, indecifrabile.
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