È esatto, dunque, affermare che la vita al campo è più crudele del necessario?
Vi risponderò così: la prossima volta che dovrò fare un lancio di combattimento, voglio che ai miei lati ci siano uomini usciti dal campo Arthur Currie, o dal suo equivalente siberiano. Altrimenti, rifiuterò di prendere posto nella capsula.
Ma a quel tempo, naturalmente, pensavo anch’io che gli istruttori fossero un branco di idioti fissati e perversi. Facciamo un piccolo esempio, tanto per intenderci. Eravamo al campo da una settimana, quando ci venne consegnata la tuta marrone da parata, in aggiunta a quella ordinaria che portavamo abitualmente. Le uniformi vere e proprie ci furono fornite in seguito. Riportai la mia tuta in fureria lamentandomi con il sergente furiere. Il suo atteggiamento paterno e il fatto che si occupasse solo di faccende amministrative mi avevano spinto a pensare che si trattasse di un mezzo civile. Non avevo ancora imparato a distinguere i nastrini, e lui ne aveva tanti sul petto, altrimenti non avrei osato nemmeno rivolgergli la parola. — Sergente, questa tuta è troppo larga. Il mio comandante di compagnia dice che mi sta addosso come una tenda.
Guardò l’indumento senza toccarlo. — Davvero?
— Sì. Ne vorrei una della mia misura.
Nemmeno una piega. — Forse sarà meglio che io ti spieghi, figliolo. Nell’Esercito esistono solo due tipi di tute: quelle troppo larghe e quelle troppo strette.
— Ma il mio comandante di compagnia…
— Non ne dubito.
— E che cosa devo fare?
— Ah! È un consiglio che vuoi? Te lo do subito. Qui c’è un ago, e ti darò anche un rocchetto di filo. Le forbici non servono, basta una lametta da barba. Dunque, stringi bene la tuta sui fianchi, ma lasciala abbondante di petto e di spalle. Scoprirai in seguito il perché.
L’unico commento del sergente Zim al mio saggio di alta sartoria fu: — Si può fare di meglio. Due ore di ramazza per punizione, fuori servizio.
E così, prima della rivista seguente, riuscii a fare di meglio.
Le prime sei settimane al campo furono una specie di cura ricostituente, e snervante, con un’infinità di adunate, riviste, esercizi, e ore di marcia. Alla fine, via via che le file si assottigliavano, raggiungemmo lo stadio in cui potevamo percorrere ottanta chilometri in dieci ore, il che rappresenta la media di rendimento di un buon cavallo, nel caso non lo sapeste. Per riposare, invece di fermarci, cambiavamo ritmo: passo lento, passo veloce, trotto. A volte facevamo l’intero percorso, bivaccavamo consumando razioni da campo, dormivamo nei sacchi e tornavamo indietro il giorno seguente.
Un giorno ci mettemmo in marcia per un’esercitazione normale, senza coperte in spalla e razioni. Non ci fermammo per colazione, ma la cosa non mi sorprese. L’esperienza mi aveva insegnato a portarmi sempre dietro zollette di zucchero e gallette abilmente sottratte alla mensa. Ma quando, nel pomeriggio, la marcia continuò portandoci sempre più lontani dal campo, cominciai a meravigliarmi. Però avevo imparato a non fare domande stupide.
Poco prima del buio fu ordinato l’alt. Eravamo tre compagnie, ormai alquanto ridotte di effettivi. Ci schierammo in battaglione, sfilammo inquadrati, senza fanfara, venne montata la guardia, poi arrivò l’ordine: — Rompete le righe! — Cercai immediatamente il caporale istruttore Bronski, leggermente meno intrattabile degli altri suoi pari grado, anche perché sentivo di avere una certa responsabilità. Al momento, mi trovavo a essere anch’io un graduato. I galloni non significavano quasi niente, tutt’al più il privilegio di essere mangiato vivo per tutto quello che io o la mia squadra combinavamo, e potevano svanire d’incanto come erano apparsi. Zim aveva provato a nominare capopattuglia tutti i più anziani della compagnia, e alla fine avevo ereditato io il bracciale con un gallone quando, un paio di giorni prima, il nostro capopattuglia dopo essere svenuto era stato portato all’ospedale.
Azzardai: — Caporale Bronski, quali sono gli ordini? Quando suonerà il rancio?
Mi sorrise. — Ho in tasca un paio di gallette. Vuoi che facciamo a metà?
— Come? Signornò, grazie. — Avevo addosso molto di più di due gallette, io. Ormai mi ero fatto furbo. — Niente rancio?
— Ne so quanto te, ragazzo. Ma non vedo elicotteri in arrivo. Se fossi al tuo posto, radunerei la mia pattuglia e cercherei di organizzarmi. Chissà che uno di voi non riesca a centrare un coniglio selvatico con una pietra.
— Signorsì. Ma… resteremo qui tutta la notte? Non abbiamo coperte con noi.
Inarcò le sopracciglia. — Niente coperte? Perbacco! — Parve pensarci su. — Mmmm… hai mai visto le pecore ammassarsi le une sulle altre durante una tormenta di neve?
— Signornò.
— Be’, provate. Loro non gelano, forse ci riuscirete anche voi. Oppure, se la promiscuità non ti piace, puoi camminare su e giù tutta la notte. Nessuno ti disturberà, purché resti entro i limiti del bivacco. Continua a muoverti e non morirai assiderato. Tutt’al più, domani sarai un po’ stanco. — E sorrise di nuovo.
Salutai e tornai alla mia pattuglia. Mettemmo insieme tutto quello che avevamo da mangiare e lo dividemmo in razioni uguali. Così mi ritrovai con meno provviste di quelle che avevo prima. Qualcuno di quegli idioti era pulito come un angioletto, altri avevano già finito tutto durante la strada. Comunque qualche galletta e un paio di prugne fanno miracoli nel calmare lo stomaco che protesta. Anche il trucchetto delle pecore funzionò. La nostra squadra, tre pattuglie, giocò a fare il gregge. Tutto sommato, non ve lo raccomando come modo di dormire. O resti nello strato esterno gelato da una parte, oppure stai sotto, abbastanza al caldo, ma con tutti gli altri che ti schiacciano e soffocano con i gomiti, i piedi e il tanfo. Per tutta la notte vaghi da una posizione all’altra, in una sorta di moto browniano, mai completamente sveglio, mai completamente addormentato. La notte sembra durare un secolo.
All’alba ci risvegliammo al familiare grido di “In piedi! Scattare!”, incoraggiati dai bastoni degli istruttori che sferzavano qua e là le terga emergenti dal mucchio. Poi attaccammo con gli esercizi ginnici. Mi sentivo un cadavere e non credevo di essere in grado di eseguire anche solo una flessione. Invece ci riuscii, sia pure vedendo le stelle per il male. Venti minuti dopo, quando ci rimettemmo in marcia, mi sentivo semplicemente più vecchio. Il sergente Zim non aveva una grinza e, chissà come, era riuscito perfino a farsi la barba.
Il sole mentre marciavamo ci scaldava le ossa. Zim ci ordinò di cantare: dapprima vecchie canzoni, come Il Reggimento della Somme e della Mosa , Caissons e Il palazzo di Montezuma , poi il nostro inno La polka del fante , che fa affrettare il passo fino a raggiungere il piccolo trotto. Il sergente Zim, stonato come una campana rotta, aveva un vocione tonante. Breckinridge, invece, dotato di un buon orecchio e di un bel timbro, guidava il coro alla faccia delle poderose stecche di Zim. Ci sentivamo piuttosto aitanti e nello stesso tempo coperti di spine.
Ma percorsi i soliti ottanta chilometri, ci sentimmo molto meno su di giri. La notte era stata interminabile, la giornata lo fu ancora di più. Zim ci diede una lavata di testa perché lo schieramento non manifestava un aspetto marziale. Diversi capopattuglia si beccarono una punizione per non essersi fatti la barba nei nove minuti d’intervallo tra il “Rompete le righe!” dopo la marcia e l’“In riga!” per la rivista. Quella sera molte reclute diedero le dimissioni. Anch’io ci pensai, ma rimasi per via di quegli stupidi galloni che fino ad allora nessuno mi aveva ancora tolto.
Quella notte ci fu un “All’armi” di due ore.
Con l’andare del tempo finii per apprezzare il conforto di due o tre dozzine di corpi umani tra i quali adagiarsi. Dodici settimane dopo, infatti, ci scaricarono nudi come vermi in una zona selvaggia delle montagne canadesi, affinché ci facessimo a piedi i nostri bravi settanta e più chilometri di montagna. Li feci, e a ogni passo scagliai una maledizione nuova di zecca contro l’Esercito, con calore e convinzione.
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