Berciò: — C’gnia! At-tenti! Sono il sergente Zim, vostro comandante di compagnia. Quando vi rivolgerete a me dovete salutare e dire “signore”. Saluterete e direte “signore” a chiunque porti un bastone da istruttore… — Intanto si batteva sul palmo una canna robusta, che poi fece roteare con destrezza per mostrare che cosa intendeva per bastone da istruttore. Ne avevo notati molti con un aggeggio così, quando eravamo arrivati la sera prima, e avevo subito pensato di procurarmene uno anch’io: conferiva un certo prestigio. Ma ora dovetti cambiare idea. — … poiché non abbiamo abbastanza ufficiali per addestrarvi. Quindi vi addestreremo noi. Chi ha starnutito?
Nessuna risposta.
— Chi ha starnutito?
Una voce rispose: — Io.
— Io, cosa ?
— Ho starnutito.
— Ho starnutito, signore!
— Ho starnutito io, signore. Sono raffreddato, signore.
— Ma guarda! — Zim si avvicinò all’uomo che aveva starnutito e gli agitò il bastone sotto il naso. — Come ti chiami?
— Jenkins… signore.
— Jenkins! — Il tono di Zim era disgustato, sprezzante. — Scommetto che una volta o l’altra, solo perché hai il raffreddore, starnutirai durante una ronda notturna, eh?
— Spero di no, signore.
— Anch’io. Ma tu sei raffreddato. Mmm… provvediamo subito. — Puntò il bastone. — La vedi quell’armeria laggiù? — Guardai anch’io e non vidi niente, salvo praterie sconfinate e un edificio che pareva sorgere lungo la linea dell’orizzonte. — Fuori dai ranghi. Fai un giro attorno a quell’armeria. Di-corsa! Bronski! Fallo correre.
— Signorsì, sergente. — Uno degli altri cinque o sei portatori di bastone partì di corsa dietro Jenkins, lo raggiunse dopo pochi passi e con un colpetto di bastone lo incitò ad accelerare il passo. Zim tornò a rivolgersi a noi, che ancora rabbrividivamo sull’attenti. Camminò in su e in giù, ci squadrò da capo a piedi con aria profondamente delusa. Alla fine si fermò, scosse la testa e parlò quasi tra sé (ma aveva una voce tonante): — Proprio a me doveva capitare!
Ci guardò. — Pezzi di somari. Macché somari, peggio! Miserabile mucchio di scimmioni rinsecchiti, pastefrolle, fantocci che non siete altro. In vita mia non ho mai visto un branco così disgustoso di cocchi di mamma… parlo con voi! Tacchi uniti! Punte aperte! Pancia in dentro! Petto in fuori! Testa alta! Sto parlando con voi!
Tirai in dentro la pancia, anche se non ero sicuro che si stesse rivolgendo a me. Continuò così per un bel pezzo. In compenso, ascoltandolo, dimenticai che avevo la pelle d’oca per il freddo, Elencò tutte le nostre manchevolezze, con abbondanza di particolari, senza mai ripetersi ed evitando il ricorso a oscenità o bestemmie. (Seppi poi che le teneva in serbo per le occasioni specialissime, e questa non lo era.) Invece di sentirmi insultato, in qualche modo finii per restare affascinato dalla padronanza di linguaggio del sergente. Chissà che figurone avrebbe fatto durante le nostre discussioni in classe!
Alla fine si calmò e parve sul punto di piangere. — È intollerabile! — concluse, amareggiato. — Devo fare qualcosa, assolutamente. I soldatini di piombo che avevo a sei anni mi davano più soddisfazioni. Ok! C’è qualcuno di voialtri mammalucchi deciso a farmi rimangiare quello che ho detto? C’è un solo uomo in questa mandria informe? Si faccia avanti!
Seguì un breve silenzio, al quale contribuii efficacemente. Non che dubitassi di avere la peggio: ne ero sicuro. Poi si levò una voce, proprio in fondo alla fila. — Credo che ci riuscirò io… signore.
Zim parve rincuorato. — Bene! Fai un passo avanti così potrò vederti. — La recluta obbedì. Era imponente una spanna più alto del sergente Zim, e più largo di spalle. — Come ti chiami, soldato?
— Breckinridge, signore. Peso novantacinque chili e non credo di essere una pastafrolla rinsecchita.
— Hai qualche preferenza a proposito di lotta?
— Signornò, può scegliere la morte che preferisce. Per quanto mi riguarda, non mi formalizzo.
— D’accordo, lotta libera. Comincia quando vuoi. — Zim gettò via il bastone.
La lotta cominciò… ed era già finita. La robusta recluta giaceva a terra, e con la destra si reggeva il polso sinistro Non aprì bocca.
Zim si chinò su di lui. — Rotto qualcosa?
— Ho paura di sì… signore.
— Mi dispiace. Sono stato un po’ precipitoso. Sai dov’è l’infermeria? Non importa… Jones! Accompagna Breckinridge all’infermeria. — Mentre i due stavano per allontanarsi, Zim diede una pacca sulla spalla al giovanottone e gli disse a bassa voce: — Tra un mesetto proveremo di nuovo, eh? Ti mostrerò com’è andata.
Forse doveva essere una conversazione confidenziale ma si trovavano a pochi passi da me, che stavo lentamente congelando.
Poi Zim gridò: — Molto bene. Un uomo, almeno, ce l’abbiamo in questa compagnia. Mi sento già meglio. Ne abbiamo qualche altro, per caso? Credete che almeno due di voi rospi scrofolosi potrebbero farcela a sfidarmi? — Faceva scorrere lo sguardo lungo la fila. — Fegati di lattante, gente senza spina dorsale… Oh! Sì, sì. Fatevi avanti.
Due uomini vicini di posto si fecero avanti insieme; immagino che si fossero accordati sul momento, ma erano lontani da me, e non avevo sentito niente. Zim sorrideva — I nomi, coraggio.
— Heinrich.
— Heinrich che cosa?
— Heinrich, signore. Bitte - Parlò in fretta con l’altra recluta che aggiunse: — Lui non parla molto bene l’inglese standard, signore.
— Meyer, mein Herr - precisò il secondo uomo.
— Non importa, in tanti lo parlano male quando arrivano qui… neanche io lo conoscevo bene. Di’ a Meyer di non preoccuparsi, imparerà. Ma ha capito almeno quello che dobbiamo fare?
— Jawohl, mein Herr - confermò Meyer.
— Certo, signor sergente. Capisce lo standard, solo che non lo parla bene.
— Benissimo. Dove ti sei beccato quelle due cicatrici alla faccia, a Heidelberg?
— Nein… signornò. A Königsberg.
— Fa lo stesso. — Zim, dopo essersi battuto con Breckinridge, aveva raccolto il suo bastone e ora lo faceva roteare. — Ne volete anche voi uno a testa, per caso?
— Non sarebbe sportivo, signore — rispose prontamente Heinrich. — Meglio usare solo le mani, se siete d’accordo.
— Come volete. Anche se forse vi ho fregato. Königsberg, eh? Regole particolari?
— Come potrebbero esserci regole, signor sergente, in una lotta a tre?
— Osservazione intelligente. Bene, allora rimaniamo d’accordo che gli occhi strappati vanno restituiti al termine dell’incontro. E puoi dire al tuo Korpsbruder che sono pronto. Cominciate pure quando volete. — Zim gettò via il bastone. Qualcuno lo raccolse.
— Lei scherza, signor sergente. Noi non strappiamo gli occhi.
— Niente cavamento d’occhi, allora, d’accordo. Vi sbrigate sì o no? Altrimenti tornatevene in fila con gli altri.
Non sono certo di aver visto tutto. Forse qualche particolare mi si è chiarito in seguito, durante le esercitazioni, non so. Ma vi riferirò i fatti come li ricordo: i due aggirarono il nostro comandante di compagnia, uno da una parte e uno dall’altra, tenendosi però a debita distanza. Da questa posizione l’uomo che lotta da solo può scegliere fra quattro mosse fondamentali, traendo vantaggio dalla mobilità e dalla migliore coordinazione di movimenti di cui beneficia rispetto agli altri due. Il sergente Zim affermava infatti (e a ragione) che qualsiasi gruppo è più debole di un uomo solo, a meno che non sia perfettamente addestrato a operare collettivamente. Per esempio, Zim avrebbe potuto disorientarne uno con una finta, balzare sul secondo mettendolo fuori combattimento, magari spezzandogli un ginocchio, per occuparsi poi del primo a suo piacimento.
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