— Cosa? No. Assolutamente no.
— La relazione emotiva cane-uomo e uomo-cane in un’unità K9 è maggiore e più rilevante di quella che esiste in molti matrimoni. Se il padrone viene ucciso, si ammazza il neocane, subito! È tutto quello che possiamo fare per la povera bestia. Una morte indolore. Se invece resta ucciso il neocane… ecco, non possiamo uccidere l’uomo, anche se sarebbe la soluzione più semplice. Invece lo leghiamo, lo ricoveriamo in ospedale e, lentamente, lo facciamo tornare alla normalità.
Weiss afferrò una penna e tracciò un segno. — Non credo si possa assegnare a un’unità K9 un ragazzo che non era disposto a disobbedire alla madre per far dormire il cane nella sua stanza. Perciò, prendiamo in esame qualcos’altro.
Solo a quel punto, mi resi conto che dovevo essere già stato bocciato per ogni eventuale assegnazione al corpo K9 e mi ero appena precluso ogni ulteriore possibilità. Ne rimasi talmente colpito che quasi mi sfuggì la sua ultima frase. In tono pensoso, distaccato, quasi stesse parlando di qualcun altro, morto da tanto tempo e lontano, il maggiore Weiss disse: — Un tempo io facevo parte di una squadra K9. Quando il mio caleb restò ucciso, venni messo in stato di sonno ipnotico per sei settimane, poi mi resero idoneo a un altro incarico. Johnnie, quei corsi che hai frequentato… perché non hai studiato qualcosa di utile?
— Come?
— Troppo tardi, ormai. Lasciamo andare. Dunque… il tuo insegnante di storia e filosofia morale ha una buona opinione di te, a quanto pare.
— Sul serio? — dissi, sorpreso. — Che cos’ha detto?
Weiss sorrise. — Dice che non sei stupido, solo ignorante e limitato dai pregiudizi dell’ambiente in cui hai vissuto. Lo conosco. Detta da lui questa è una lode sperticata.
A me non pareva, per la verità. Quel vecchio manico di scopa…
— Inoltre — concluse Weiss — un ragazzo che prende sei meno in Apprezzamento della televisione non può essere tanto male. Cosa ne diresti di entrare in Fanteria?
Uscii dal Palazzo federale un po’ abbattuto, ma non proprio al colmo dell’avvilimento. Se non altro, ero un soldato e avevo in tasca le carte che lo provavano. Non ero stato classificato talmente limitato e inutile da poter servire solo da cavia.
L’orario di lavoro era passato da pochi minuti, e l’edificio era ormai vuoto, salvo per alcuni guardiani notturni e qualche ritardatario. Nell’atrio mi imbattei in un tale che stava per andarsene. Non era una faccia nuova, ma non ricordavo chi fosse.
Ma lui mi vide e mi riconobbe. — Buonasera — disse. — Ancora qui, a quest’ora?
Lo riconobbi anch’io. Era il sergente che ci aveva arruolati. Chissà che faccia dovetti fare. L’amico era in abiti civili, se ne andava in giro su tutte e due le gambe, e ora aveva anche tutte e due le braccia. — Buonasera sergente — balbettai.
Capì perfettamente la mia espressione, si diede una rapida occhiata e sorrise prontamente. — Calma, figliolo. Fuori servizio non sono tenuto a far inorridire il prossimo, quindi mi rendo presentabile. Ti hanno già destinato a qualche reparto?
— Ho ricevuto proprio adesso l’assegnazione.
— A che cosa?
— Fanteria spaziale mobile.
La faccia gli si illuminò di gioia, mi allungò la mano. — Il mio corpo! Qua la mano, figliolo! Faremo di te un uomo… o ti accopperemo nel tentativo. Forse, tutt’e due le cose.
— È una buona scelta? — chiesi, dubbioso.
— Una buona scelta? Figliolo, è l’unica scelta possibile. La Fanteria spaziale mobile è l’Esercito. Tutti gli altri sono solo scienziati o gente che sta lì a schiacciare tasti e poi rifila tutto a noi. Tocca a noi levare le castagne dal fuoco. — Altra stretta di mano. — Mandami una cartolina… Sergente Ho, Palazzo federale. È sufficiente. Buona fortuna, figliolo! — E se ne andò, spalle indietro, talloni che facevano un rumore secco, testa dritta.
Mi guardai la mano. Quella che mi aveva teso, la destra, era una protesi, eppure sembrava di carne, e aveva stretto con forza. Avevo letto qualcosa su quelle protesi elettroniche, ma vederle in funzione è davvero sconcertante, specie la prima volta.
Tornai all’albergo dove le reclute erano temporaneamente alloggiate in attesa della destinazione. Non avevamo nemmeno l’uniforme, per il momento, ma solo una tuta che portavamo durante il giorno. Nelle ore di libertà potevamo rimetterci i nostri vestiti. Andai in camera mia e iniziai a fare i bagagli, dato che sarei partito di buon’ora il mattino seguente. Si trattava dei bagagli da rispedire a casa, naturalmente. Weiss mi aveva raccomandato di portare con me solo fotografie e magari uno strumento musicale, se sapevo suonare. Ma io non ne suonavo nessuno. Carl era partito tre giorni prima, avendo ottenuto l’assegnazione che desiderava, Ricerca e sviluppo. Ne ero contento, perché sapevo che sarebbe rimasto perplesso nel sentire che ero finito nella Fanteria. Anche Carmencita se n’era già andata con il suo bravo grado di cadetta astronauta (in prova), e io ero pronto a scommettere che sarebbe diventata un’ottima pilota.
Il mio compagno di camera entrò mentre chiudevo la valigia. — Assegnato? — s’informò.
— Già.
— Dove?
— Fanteria spaziale mobile.
— Cosa… Fanteria? Poveretto, che figura! Mi dispiace per te, davvero.
Mi voltai a guardarlo, indignato. — Ma stai zitto! La Fanteria spaziale mobile è l’arma migliore di tutto l’Esercito… È l’Esercito, praticamente! — gli dissi. — Tutti quanti voialtri siete capaci solo di passarci le gatte da pelare, ma il lavoro vero lo facciamo noi.
Rise. — Sì, te ne accorgerai!
— Se non la pianti, ti spacco il muso!
E li tratterà con verga di ferro.
Apocalisse 2,27
Per l’addestramento venni inviato al campo Arthur Currie, nella zona settentrionale delle Grandi pianure, insieme a un paio di migliaia di altri infelici. E quando dico “campo” dico proprio campo, perché gli unici edifici in muratura servivano a proteggere l’equipaggiamento. Mangiavamo e dormivamo in tenda, facevamo vita all’aperto, se quella si chiama vita, cosa che, a quel tempo, sarei stato certamente incline a negare. Abituato com’ero a un clima caldo, mi sembrava che il Polo Nord fosse appena a qualche chilometro e si avvicinasse sempre più. Forse era cominciata una nuova Era glaciale.
Comunque, il moto riscalda, e i capi facevano in modo che ci scaldassimo.
Il primo giorno, ci svegliarono assai prima dell’alba Avevo faticato ad abituarmi al cambiamento di fuso orario, e provavo la sensazione di essermi appena addormentato. Mi pareva anche impossibile che qualcuno pretendesse che mi buttassi giù dal letto nel cuore della notte Ma facevano sul serio, eccome! Da qualche parte, un altoparlante stava trasmettendo una marcia militare, capace di svegliare anche i morti, e uno scocciatore che era arrivato di corsa urlando: — Tutti fuori! Diii corsa! Scat-tare — tornò indietro di soppiatto, mentre mi giravo dall’altra parte tirandomi le coperte sulle orecchie, rovesciò la mia brandina e mi scaraventò sulla nuda e gelida terra. In quel gesto non c’era nulla di personale, se ne andò senza nemmeno assicurarsi che cadendo non mi fossi fatto male.
Dieci minuti dopo, in pantaloni, maglietta e scarpe, ero in fila con gli altri, sommariamente allineati, per iniziare gli esercizi proprio mentre il sole a est si affacciava timidamente all’orizzonte. Di fronte a noi c’era un tipo dalle spalle larghe e l’aria da carogna, vestito esattamente come noi, salvo che, mentre io sembravo, e mi sentivo, l’opera di un imbalsamatore maldestro, lui, con il mento rasato di fresco, i calzoni dalla piega impeccabile e le scarpe lustre come specchi, si presentava aitante, sveglio, calmo e riposato. Dava addirittura l’impressione di non avere affatto bisogno di dormire, tutt’al più, una revisione ogni tanto e una buona ripassata con l’aspirapolvere quando era necessario.
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