Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Avevamo condiviso la nostra cameretta malandata per quasi sette settimane — un pezzettino di maggio, tutto giugno e una parte di luglio — nella buona e nella cattiva sorte, passando attraverso ondate di entusiasmo e docce fredde, incomprensioni e riconciliazioni; era stato un periodo di felicità, forse il più felice della mia vita. Io l’amavo e penso che lei mi amasse. Non ho avuto molto amore nella mia vita. Non prendetelo come un tentativo di ottenere la vostra pietà, ma soltanto come un puro e semplice dato di fatto, oggettivo e freddo. La natura stessa della mia condizione riduce la possibilità di amare e di essere amato. Un uomo nella mia situazione, ricettivo ai più intimi pensieri di chiunque, concretamente non arriva a sperimentare una grossa fetta di amore. È povero nel dare amore perché non si fida molto degli esseri umani suoi simili: conosce troppo bene i loro piccoli sforzi segreti e questo uccide i suoi sentimenti. Incapace di dare amore, non ne può ricevere. La sua anima, indurita dall’isolamento e dall’incapacità di dare amore, diventa inaccessibile, per cui non è per niente facile agli altri amarlo. Il cerchio si chiude su se stesso e ci si resta intrappolati dentro. Nonostante questo, io amavo Toni, avendo badato a non curiosare troppo in profondità dentro di lei, e non dubitavo che il mio amore fosse ricambiato. Dopo tutto, che cosa definisce quel che è amore? Noi preferivamo la compagnia l’uno dell’altro in tutti i modi possibili. Non ci siamo mai infastiditi a vicenda. I nostri corpi riflettevano l’intimità delle nostre anime: io non fallii mai un’erezione, lei non mancò mai di bagnarsi, i nostri accoppiamenti ci portarono sempre tutti e due all’estasi.

Chiamavo queste cose i parametri dell’amore.

Il venerdì della nostra settima settimana Toni ritornò a casa dall’ufficio con due quadratini di carta macchiata nella borsetta. Al centro di ognuno dei due quadrati c’era una strana macchia verde-azzurra. Li studiai un secondo o due, senza capire.

— Acido — disse lei alla fine.

— Acido?

— Ma sì, lo sai. LSD. Me l’ha dato Teddy.

Teddy era il suo capo, il redattore-capo. LSD, sì. Lo conoscevo. Avevo letto Huxley a proposito della mescalina nel 1957. Ero affascinato e tentato. Per anni avevo flirtato con l’esperienza psichedelica, tentando addirittura una volta di presentarmi come volontario in un programma di ricerca sull’LSD al Columbia Medical Center. Mi ero iscritto troppo tardi, però; e poi, quando la droga diventò di moda, vennero tutte le orripilanti storie di suicidi, psicosi, viaggi finiti male. Ben conoscendo la mia vulnerabilità, decisi che sarebbe stato saggio lasciare l’acido agli altri. Mi restava però ancora addosso tutta la curiosità. Ed ecco qui, adesso, questi quadretti di carta macchiata sul palmo della mano di Toni.

— Dicono che questa roba sia dinamite — disse lei. — Materiale assolutamente puro, di laboratorio. Teddy ha già viaggiato per fare un controllo di questa partita e dice che è proprio liscia, proprio pulita, che non c’è accelerazione o accidenti del genere. Ho pensato che domani potremmo passarlo viaggiando, e poi dormire tutta la domenica.

— Tutti e due?

— Perché no?

— Pensi che sia saggio essere fuori di noi tutti e due nello stesso momento?

Mi lanciò un’occhiata tutta particolare. — Credi che l’acido ti faccia andare “fuori di te”?

— Non lo so. Ho sentito un mucchio di storie paurose.

— Non hai mai fatto un viaggio?

— No — dissi. — E tu?

— Be’, no. Però ho visto alcuni miei amici in viaggio. — Provai una fitta acuta al pensiero della vita che aveva condotto prima che io l’incontrassi. — Non uscivano dalla loro mente, David. C’è una specie di esaltazione selvaggia per un’ora o giù di lì, in cui le cose, qualche volta, si fanno confuse, però, fondamentalmente, chi è in viaggio sta lì seduto lucido, calmo come… be’, come Aldous Huxley. Ti immagini Huxley che esce di senno? Che farfuglia e dice sciocchezze e che sfascia i mobili?

— Che ne dici di quello che ha ucciso la sua matrigna mentre era sotto l’azione dell’acido? E della ragazza che si è buttata dalla finestra?

Toni si strinse nelle spalle. — Erano instabili — disse altezzosamente. — Forse era proprio l’assassinio o il suicidio la loro vera inclinazione, e l’acido ha solo fornito la spinta di cui avevano bisogno. Questo, però, non vuol dire che sarebbe così per te, o per me. Può anche darsi che le dosi fossero eccessive, o la roba fosse tagliata con qualche altra droga. Chi lo sa? Quelli sono un caso su un milione. Io ho amici che hanno viaggiato cinquanta, sessanta volte, e non hanno mai avuto nessun disturbo. — Era irritata con me. C’era un tono condiscendente, da paternale, nella sua voce. Pareva che la sua stima nei miei riguardi stesse diminuendo per quelle mie esitazioni da vecchia zitella; eravamo al limite di una vera e propria spaccatura. — Dov’è il problema, David? Hai paura di un viaggio?

— Penso che non sia saggio viaggiare insieme, tutto qui. Quando non siamo sicuri dove questa roba ci porta.

— Viaggiare insieme è la cosa più bella che due persone possano fare — disse lei.

— Ma è una cosa rischiosa. Non lo conosciamo bene. Ascoltami: si può prendere più acido di quello che serve, non è vero?

— Ritengo di sì.

— Okay, allora. Facciamolo con ordine, un passo alla volta. Non c’è fretta. Tu viaggi domani e io starò a guardare. Io viaggerò domenica e starai a guardare tu. Se ad ambedue piacerà quello che l’acido combina alle nostre teste, la prossima volta faremo il viaggio insieme. Va bene, Toni? Okay?

Non andava bene. Vidi che lei stava per cominciare a parlare, per imbastire qualche argomentazione, qualche obiezione; però la vidi anche trattenersi, fare marcia indietro, riflettere sulla sua posizione, e decidere di non farne niente. Benché non fossi entrato nella sua mente neanche per un secondo, l’espressione del suo volto rendeva tutta la sequenza dei suoi pensieri, con un’evidenza completa. — Tutto bene — lei disse adagio. — Non vale la pena di insistere.

Sabato mattina lei saltò la colazione — le era stato detto di fare il viaggio a stomaco vuoto — e, dopo che io ebbi mangiato, rimanemmo seduti per un po’ in cucina con uno dei quadratini di carta sporca che stava lì, tutto innocente, sul tavolo tra noi due. Fingemmo che non ci fosse. Toni sembrava un po’ tirata; non sapevo se fosse seccata per la mia insistenza di fare il viaggio separati oppure se, proprio all’ultimo momento, fosse turbata dall’idea del viaggio. Non parlammo molto. Lei riempì un portacenere con un grande lugubre mucchio di sigarette fumate a metà. Ogni tanto ridacchiava nervosamente. Ogni tanto io le toccavo una mano e sorridevo incoraggiante. Durante queste scene patetiche alcuni degli inquilini con cui noi condividevamo la cucina entrarono e uscirono. Prima Eloise, la melliflua torbida puttana. Poi la signorina Theotokis, l’infermiera dalla faccia dura, che lavorava al St. Luke. Il signor Wong, il misterioso piccolo grassoccio cinese che girava sempre in mutande. Aitken, l’erudito omosessuale che veniva da Toledo, con il suo cadaverico compagno di stanza tossicomane, Donaldson. Un paio di loro fecero un cenno con la testa nella nostra direzione, però nessuno disse niente, neppure «Buon giorno». In quel posto si usava comportarsi come se i propri vicini fossero invisibili. Le belle tradizioni della vecchia New York! Verso le dieci e mezzo Toni disse: — Dammi un succo di arancia, vuoi? — Ne versai un bicchiere prendendolo, nel frigorifero, da un contenitore che portava un’etichetta con il mio nome. Ammiccando verso di me e facendomi un ampio sorriso, una smargiassata menzognera, lei appallottolò la cartina macchiata e se la spinse in bocca, inghiottendola senza masticarla e mandando giù il succo d’arancia in un sorso solo.

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