Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Il povero vecchio Paul era rimasto sveglio, tutto agitato, per settimane, senza neppure confessare a sua moglie perché era così sconvolto, rivelando però inconsapevolmente l’intera faccenda a quel suo figlio ficcanaso. Le insicurezze, le ostilità irrazionali. “Perché mai dovrei allevare il figlio di un altro, soltanto perché uno psichiatra dice che farebbe bene a David? Che razza di sozzura finirò per tirarmi in casa? Come potrei amare un ragazzo che non è mio? Come potrei dirgli che è ebreo quando — chi lo sa? — potrebbe essere figlio di qualche irlandese, di qualche lustrascarpe italiano, di qualche carpentiere?” Tutto questo vede David l’onniveggente. Finalmente il vecchio Selig esprime le sue apprensioni, ben fondate, a sua moglie, dicendo: forse Hittner si sbaglia, forse questa è soltanto una fase che David sta attraversando, e un altro bambino non sarebbe per niente la risposta giusta. La fa riflettere su tutte le spese, sui cambiamenti che dovrebbero apportare nel loro modo di vivere; e ormai non sono più giovani, si sono abituati a un certo tipo di vita, pensa a un bambino che ti sveglia alle quattro del mattino, che piange, i pannolini. E David che silenziosamente incita suo padre. Chi ha bisogno di questo intruso, di questo fratellino o sorellina che sia, di questo nemico della quiete? Ma Martha, tutta lacrime, contrattacca, citando la lettera di Hittner, leggendo passi chiave dalla sua estesa biblioteca di psicologia infantile, offrendo schiaccianti statistiche su casi di nevrosi, inadattabilità, di enuresi notturna e omosessualità tra i figli unici. Il vecchio cede a Natale. «Okay, okay, l’adotteremo, però lo prendiamo solo in un caso, mi senti? Deve essere ebreo.» Settimane invernali a fare il giro delle agenzie per l’adozione, continuando a fingere con David che quei giri a Manhattan sono soltanto innocentissime escursioni per far compere. Proprio lui, che non restava ingannato da nulla. Come avrebbe potuto qualcuno ingannare quel ragazzino che sapeva tutto? Lui doveva soltanto dare un’occhiatina dietro le loro fronti per venire a sapere che stavano comperando un fratellino o una sorellina. Suo unico conforto era quello di sperare che non l’avrebbero trovato. Si era ancora in tempo di guerra: se non si riusciva a comperare una macchina, forse non si trovavano neanche i fratellini. Per parecchie settimane sembrò che le cose andassero proprio così. Non c’erano tanti bambini disponibili, e quelli che lo erano, sembrava che avessero gravi lacune: troppo poco ebrei, oppure troppo fragili o malaticci, o del sesso sbagliato. C’erano alcuni maschietti disponibili, ma Paul e Martha avevano deciso di dare a David una sorellina. Già questo limitava considerevolmente la faccenda, dal momento che la gente non dà le bambine in adozione facilmente come accade per i maschietti; tuttavia una nervosa notte di marzo David scoprì una sinistra nota di soddisfazione nella mente di sua madre, appena ritornata da un altro giro di compere, e, guardando più da vicino, capì che la ricerca era terminata. Avevano trovato un’adorabile bambina di quattro mesi. La madre, che aveva 19 anni, non soltanto era indiscutibilmente ebrea ma era anche un’universitaria, descritta dall’agenzia come “estremamente intelligente”. Non così intelligente, comunque, da evitare di lasciarsi fecondare da un bel capitano dell’aeronautica, anche lui ebreo, mentre era a casa in licenza nel febbraio 1944. Benché provasse rimorso per la sua leggerezza, lui non ne aveva voluto sapere di sposare la vittima della sua brama, e adesso era in servizio attivo nel Pacifico, dove, per quanto riguardava i genitori della ragazza, avrebbero dovuto ammazzarlo almeno dieci volte. L’avevano obbligata a dare la bambina in adozione. David era curioso di sapere perché Martha non avesse portato la piccina a casa con lei quello stesso pomeriggio; presto, però, scoprì che dovevano passare ancora parecchie settimane di formalità legali, ed era già cominciato da un bel po’ aprile quando finalmente sua madre annunciò: — Papà e io abbiamo una stupenda sorpresa per te, David.

La chiamarono Judith Hannah Selig, dal nome della madre, recentemente morta, del suo padre adottivo. David la odiò all’istante. Aveva temuto che la sistemassero nella sua cameretta, ma no, collocarono la sua culla nella loro stessa camera da letto; nonostante questo, i suoi pianti riempirono tutto l’appartamento notte dopo notte, aspri vagiti che non finivano mai. Era incredibile quanto fracasso poteva fare. Paul e Martha praticamente passavano tutto il tempo dandole da mangiare o giocando con lei o cambiandole i pannolini, e questo a David non importava granché, perché almeno li teneva occupati e distoglieva da lui un po’ della loro pressione. Ma odiava avere Judith tra i piedi. Non ci trovava niente di interessante nei suoi arti grassi e tozzi e nei suoi capelli ricciuti e nelle sue guance con le fossette. Osservandola attentamente mentre veniva cambiata, provò un interesse accademico per quella sua piccola rosea fessura, così aliena alla sua esperienza; però, dopo che l’ebbe vista una volta, la sua curiosità si calmò. “Così loro invece del cosino hanno un taglio. Ma chi se ne frega?” In generale lei era una distrazione irritante. Lui non riusciva a leggere a causa del fracasso che faceva, e leggere era la sua unica soddisfazione. L’appartamento era sempre pieno di parenti o amici, che facevano la loro visita d’obbligo al nuovo bebè, e le loro menti stupide, convenzionali, inondavano l’ambiente di pensieri ottusi che martellavano la vulnerabile psiche di David.

Ogni tanto cercava di leggere la mente della bambina, ma non c’era niente lì dentro al di fuori di confusi vaghi informi ammassi di sensazioni. Erano meglio le menti di cani e gatti. Pareva che lei non avesse affatto pensieri. Tutto quello che lui riusciva ad afferrare erano sensazioni di fame, di sonnolenza, e un indistinto orgasmo liberatorio quando bagnava i pannolini. Circa dieci giorni dopo che era arrivata, lui decise di ucciderla telepaticamente. Mentre i suoi genitori erano affaccendati altrove, andò nella loro camera da letto, guardò nella culla di vimini di sua sorella e si concentrò più intensamente che poté per far defluire la mente informe di lei fuori dal cranio. Se soltanto gli fosse riuscito di manovrare in qualche modo per risucchiare da lei la scintilla dell’intelletto, per attirare dentro di sé la sua psiche, per trasformarla in un guscio vuoto senza mente, allora sarebbe certamente morta. Cercò di piantare i suoi uncini in fondo alla sua anima. La guardò fissa negli occhi e liberò il suo potere, afferrando ogni sua debole emissione e tirando sempre di più. “Vieni… vieni… la tua mente sta scivolando verso di me… sto prendendola io, sto prendendomela tutta intera… zam! Ho catturato la tua mente!” Insensibile ai suoi incantesimi, lei continuava a emettere suoni gutturali e ad agitare qua e là le braccia. Lui la fissò con più intensità, raddoppiando il vigore della sua concentrazione. Il suo sorriso ebbe un guizzo, poi sparì. La sua fronte si corrugò in un aggrottare di ciglia. Si era accorta che lui stava attaccandola, oppure era semplicemente seccata da quelle smorfie? “Vieni… vieni… la tua mente sta scivolando verso di me…”

Per un attimo pensò che potesse veramente succedere. Però poi lei gli lanciò un’occhiata gelida, malevola, incredibilmente selvaggia, veramente terrificante per una bambina, e lui arretrò, atterrito, temendo un improvviso contrattacco. Un istante dopo lei stava di nuovo emettendo suoni gutturali. Lo aveva sconfitto. Continuò a odiarla, però non tentò mai più di farle del male. Lei, a cominciare dal momento in cui fu grande abbastanza per capire che cosa significhi odio, fu ben conscia di quello che suo fratello provava nei suoi confronti. E lo ricambiò. Si dimostrò subito molto più efficiente di quanto non fosse lui. Oh, è sempre stata un’esperta in odio.

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