Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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— Ho ancora del lavoro da fare per questa sera, Jude.

— Mi spiace. Non volevo disturbarti. Verrai a cena questa settimana?

— Ci penserò. Te lo farò sapere.

— Perché mi odi tanto, Duv?

— Io non ti odio. Ma tra un po’ fondiamo il telefono.

— Non scordarti di telefonare — dice lei. Parla al vento.

8

Toni. Adesso dovrei parlarvi di Toni.

Ho vissuto con Toni per sette settimane, un’estate di otto anni fa. Non ho mai vissuto con qualcun altro così a lungo: fatta eccezione per i miei genitori e per mia sorella, che ho abbandonato appena ho potuto; e fatta eccezione di me stesso, di cui non posso sbarazzarmi affatto. Toni è stata uno dei due grandi amori della mia vita: l’altro è stato Kitty. Di Kitty vi parlerò un’altra volta.

Posso ricostruire Toni? Proviamo con pochi rapidi tratti. Aveva 24 anni. Una ragazza brillante, alta circa un metro e 80. Esile. Svelta e goffa insieme. Lunghe gambe, lunghe braccia, polsi sottili, caviglie sottili. Lucidi capelli neri, drittissimi, che scendevano come una cascata sulle sue spalle. Occhi scuri appassionati, intelligenti, sempre attenti e canzonatori. Una ragazza vivace, accorta, non proprio colta ma straordinariamente saggia. Il volto tutt’altro che convenzionalmente “grazioso” — troppa bocca, troppo naso, zigomi troppo alti — eppure capace di produrre un effetto sexy e di enorme attrazione, quel che basta per far voltare un mucchio di teste quando entra in una stanza. Ha petto pieno, sodo. Mi attirano le donne dai bei seni: ho sempre bisogno di un posto morbido per riposarci la mia testa stanca. Tutte le volte che mi sento stanco. Mia madre portava la prima misura: non era certo un comodo cuscino. Non avrebbe potuto allattarmi neanche se lo avesse voluto, e non lo fece. (Riuscirò mai a perdonarle di avermi lasciato uscir fuori dal suo ventre? Ah, andiamo, Selig, dimostra un po’ di pietà filiale, per l’amor di Dio!).

Non ho mai guardato nella mente di Toni, salvo un paio di volte, una il giorno in cui l’ho incontrata e l’altra un paio di settimane dopo; poi una terza volta il giorno in cui rompemmo. La terza volta fu un puro caso, disastroso. Anche la seconda fu più o meno un caso, ma non del tutto. Soltanto il primo fu un sondaggio voluto. Dopo che fui sicuro di amarla, decisi di non spiare mai più nella sua testa. Chi spia dal buco della serratura, può vedere cose che gli faranno male. Una lezione che ho imparato quand’ero molto piccolo. Inoltre non volevo che Toni sospettasse qualcosa del mio potere. La mia maledizione. Avevo paura che potesse spaventarla, allontanandola da me.

Quell’estate, a 85 dollari la settimana, ultimo nell’infinita serie dei miei strani lavori, facevo alcune ricerche per conto di un notissimo scrittore professionista che stava preparando un libro immenso sulle macchinazioni politiche legate alla fondazione dello stato di Israele. Per otto ore al giorno scartabellavo per lui le raccolte di antichi quotidiani nelle viscere della biblioteca alla Columbia. Toni era uno dei giovani curatori della casa editrice che avrebbe pubblicato il libro. La incontrai un pomeriggio di primavera nel lussuoso appartamento dello scrittore, sull’East End Avenue. Ero andato lì per consegnare un fascio di appunti sui discorsi di Harry Truman per le elezioni del 1948, e per caso c’era anche lei, che stava discutendo di alcuni tagli da fare ai primissimi capitoli. La sua bellezza mi colpì con violenza. Non ero stato con una donna da mesi. Automaticamente supposi che fosse l’amante dello scrittore — chiavare i redattori, mi era stato detto, è prassi consueta agli alti livelli della professione letteraria — ma immediatamente i miei istinti voyeuristici mi fornirono l’informazione richiesta. Sondai lui velocemente e scoprii che la sua mente era una fogna di concupiscenza frustrata nei riguardi della ragazza. La desiderava angosciosamente, mentre lei non lo desiderava affatto, era evidente. Subito dopo, frugai nella mente di lei. Penetrai dentro, in profondità, e mi ritrovai in un terreno caldo, ricco. Rapidamente mi orientai. Isolati frammenti di autobiografia mi bombardarono, incoerenti, non lineari; un divorzio, alcuni momenti di amore fisico, alcuni belli e alcuni brutti, i giorni del college, un viaggio ai Caraibi; tutto ondeggiava al solito modo, caotico. Oltrepassai quella zona, rapidamente e andai a cercare ciò che veniva dopo. No, non andava a letto con lo scrittore. Fisicamente egli significava zero assoluto, per lei. (Strano. A me sembrava un uomo attraente, una figura romantica e interessante, per quanto può giudicare queste cose un’anima tristemente eterosessuale come la mia). Appresi che a lei non piaceva neppure quello che lui scriveva. Poi, sempre rovistando, appresi qualcos’altro, che mi lasciò molto più stupito: a quanto sembrava, io le interessavo. Da lei venne, esplicito: “Mi piacerebbe sapere se questa notte è libero”. Scrutò l’attempato ricercatore, un venerabile trentatreenne, che stava già diventando bruttino, e non lo trovò affatto repellente. Ne rimasi così scosso — la malìa dei suoi occhi scuri, la sensualità delle sue lunghe gambe, erano puntate contro di me — che mi ritrassi dalla sua mente in tutta fretta. — Ecco il materiale su Truman — dissi al mio principale. — La maggior parte proviene dalla biblioteca Truman nel Missouri. — Parlammo per alcuni minuti dell’incarico successivo che mi avrebbe affidato, quindi feci finta di andarmene. Un’occhiata di lei, rapida, circospetta.

— Aspetti — disse lei. — Scendiamo insieme. Qui ho quasi finito.

Il letterato mi lanciò un’occhiata d’invidia, velenosa. Oh Dio, è ancora cotto. Però ci salutò e si accomiatò da ambedue, civilmente. Nell’ascensore, mentre scendevamo, restammo ognuno per proprio conto, Toni in un angolo, io nell’altro, con una pencolante barriera di tensione e di ardente desiderio che ci separava e ci univa. Dovetti lottare per trattenermi dal leggerla; ero impaurito, atterrito, non di avere la risposta sbagliata, ma quella giusta. Anche per la strada restammo ognuno per proprio conto, un attimo di esitazione. Alla fine dissi che prendevo un tassi per andare a Upper West Side — io, un tassi, io con 85 dollari la settimana! — e chiesi se potevo lasciarla da qualche parte. Lei disse che viveva nella 105 a, West End. Abbastanza vicina. Quando il tassi si fermò davanti a casa sua, mi invitò a salire per un drink. Tre stanze, ammobiliate con indifferenza: soprattutto libri, dischi, tappeti di piccole dimensioni, poster. Lei versò del vino per tutti e due e io l’afferrai e la feci girare e la baciai. Tremava, stretta a me; oppure ero io che stavo tremando?

Davanti a una scodella di zuppa bollente e piccante, al Gran Shanghai, quella stessa sera, un po’ più tardi, lei disse che doveva sloggiare di lì entro un paio di giorni. L’appartamento era del suo attuale compagno di stanza — un maschio — col quale aveva rotto proprio tre giorni prima. Non aveva un posto dove andare. — Sono riuscita soltanto a trovare una schifezza di stanza — disse — ma c’è un letto matrimoniale. — Un largo sorriso, malizioso, suo e mio. Così lei traslocò. Non pensavo che mi amasse, per niente, comunque non glielo chiesi. Anche se quello che lei provava per me non era amore, andava più che bene, meglio di quanto potessi sperare; e io, dentro di me, l’amavo. Le serviva un porto tranquillo per scampare alla tempesta. Io gliene offrivo uno. Se era soltanto questo che io significavo per lei, andava benissimo. Davvero. C’era tempo perché le cose maturassero.

Dormimmo molto poco, le nostre prime due settimane. Non che continuassimo a fare all’amore, benché non ci risparmiassimo. No. Parlavamo. Eravamo nuovi l’uno per l’altra: è questo il periodo ideale di ogni rapporto a due, quando c’è tutto un passato da condividere, quando ogni cosa viene fuori da sola e non c’è bisogno di andare a cercare che cosa dire. (Non proprio tutto viene fuori. L’unica cosa che le tenevo segreta era il fatto centrale della mia vita, il fatto che aveva plasmato il mio vero me stesso). Lei parlava del suo matrimonio — giovane, a vent’anni, breve, e vuoto — e di come aveva vissuto nei tre anni da quando era finito, un succedersi di uomini, un tuffo nell’occultismo e nella terapia reichiana, la recente passione per la carriera di redattore. Settimane vertiginose.

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