Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Argomento di questa composizione è Il Mio Primissimo Viaggio.

Il mio primo e l’ultimo, otto anni fa. Veramente non fu per niente il mio viaggio, ma il viaggio di Toni. L’acido lisergico dietilammide non è mai passato attraverso il mio tratto intestinale, se si deve dire la verità. Quello che ho fatto è stato l’autostop nel viaggio di Toni. In un certo senso io sto ancora facendo l’autostop in quel viaggio, quel pessimo viaggio. Lasciate che ve ne parli.

Successe nell’estate del ’68. Quell’estate era già brutta in se stessa; vi ricordate l’estate del ’68? Fu quella in cui noi tutti aprimmo gli occhi sul fatto che tutto stava andando a rotoli. Intendo parlare della società americana. Quell’impressione di crollo e di collasso imminente, che ti permea completamente, a noi tutti così familiare, penso che risalga, di fatto, al 1968. Quando il mondo attorno a noi divenne una metafora del violento processo d’incremento entropico che si svolgeva nelle nostre anime… nella mia anima, perlomeno.

Quell’estate alla Casa Bianca c’era Lyndon Baines MacBird, giusto per la scena, che cercava di far passare il tempo dopo la sua abdicazione in marzo. Bobby Kennedy aveva finalmente incontrato la pallottola con sopra il suo nome, e così Martin Luther King. Nessuno dei due omicidi era stato una sorpresa; l’unica sorpresa era che si fossero fatti attendere tanto a lungo. I negri stavano appiccando il fuoco alle città, erano i loro stessi quartieri, a cui appiccavano il fuoco, ricordate? La gente comune di tutti i giorni cominciava a portare abiti stravaganti per andare a lavorare, midi e body e minimini, e i capelli si facevano sempre più lunghi anche per quelli al di sopra dei venticinque. Era l’anno delle basette e dei mustacchi alla Buffalo Bill. Gene McCarthy, un senatore del… (di dove? Minnesota? Wisconsin?) citava poesie nelle sue conferenze per arrivare alla nomina a rappresentante dei democratici per la presidenza, ma ci si poteva tranquillamente scommettere che i democratici la nomina l’avrebbero data a Hubert Horatio Humphrey, quando si riunirono a Chicago per la loro convention (e non è stata, quella convention, un delizioso festival del patriottismo americano). In campo avversario Rockefeller dopo tanta fatica era lì lì per raggiungere Dick l’imbroglione, Richard Nixon, ma tutti sapevano dove sarebbe arrivato. Tanti bambini stavano morendo per denutrizione in un posto chiamato Biafra, che voi non ricordate, e i russi stavano portando truppe in Cecoslovacchia per un’ulteriore dimostrazione di fraternità socialista. In un posto chiamato Vietnam, che probabilmente non vorreste ricordare, noi stavamo sganciando bombe al napalm su tutto ciò che si muoveva allo scopo di promuovere la pace e la democrazia, e un tenente di nome William Calley aveva di recente coordinato l’eliminazione di oltre cento sinistri e pericolosi vecchi, vecchie e bambini nel villaggio di Mylai, anche se noi non ne sapevamo ancora niente. I libri che tutti leggevano erano Coppie , Myra Breckenridge , Le confessioni di Nat Turner e I giochi d’azzardo. Dimentico i film di quell’anno. Easy Rider non era ancora uscito e Il laureato era dell’anno prima. Forse quello era l’anno di Rosemary’s Baby. Sì, mi pare esatto: il 1968 era di sicuro l’anno del demonio. Fu anche l’anno in cui un mucchio di gente di mezza età e delle classi medie cominciò ad usare, con affettazione, parole come “fumata” e “erba” per indicare la marijuana. Alcuni di loro la fumavano con la stessa facilità con cui ne parlavano. (Io. Stavo avviandomi ai miei 33 anni). Vediamo, che altro c’è? Il presidente Johnson nominò Abe Fortas per rimpiazzare Earl Warren come presidente della Corte Suprema. Dove sei adesso, presidente della Corte Fortas, adesso che noi abbiamo bisogno di te? Gli incontri per la pace di Parigi, lo si creda o no, sono cominciati proprio quell’estate. Negli anni seguenti sembrò che i colloqui fossero un’istituzione senza tempo, eterni come il Gran Canyon e il Partito Repubblicano; invece no: furono inventati nel 1968. Denny McLain era sulla buona strada per vincere 31 partite in quella stagione. Suppongo che McLain sia stato l’unico essere umano a trovare il 1968 un’esperienza che valeva la pena di essere vissuta. La sua squadra, però, perse i campionati del mondo. (No. Che cosa sto dicendo? I Tigers vinsero per quattro a tre. Però fu Mickey Lolich il numero uno, non McLain). Ecco che tipo di anno fu quello. Oh, Cristo, ho dimenticato un grosso significativo pezzo di storia. Nella primavera del ’68 ci sono stati i disordini alla Columbia, con gli studenti estremisti che occuparono il campus («Kirk deve andarsene!») e con le lezioni sospese («Sospendetele!») e gli esami finali che saltavano e scontri notturni con la polizia, con la conseguenza di un bel po’ di crani studenteschi messi a nudo e tanto sangue d’alta qualità versato per la strada. Com’è buffo che io abbia cacciato fuori dalla mia mente questo fatto, quando di quello che ho elencato qui era l’unico di cui io abbia realmente avuto un’esperienza diretta. Ero a Broadway, nella 116 aStrada, a osservare i plotoni di “fuzz” dagli occhi di ghiaccio che correvano verso la Butler Library. (Chiamavamo “fuzz” i poliziotti, prima di cominciare a chiamarli porci, il che successe poco dopo, quello stesso anno). Tenevo ben alzata la mano con due dita tese a V, come segno-di-vittoria-per-la-pace, e urlavo slogan idioti come facevano i più impegnati. Mi rannicchiai nell’anticamera della Furnald Hall quando la brigata in blu, ben fornita di grossi randelli, portò il suo violento attacco. Parlai di tattica con un barbone, un SDS gauleiter , che alla fine mi sputò in faccia e mi chiamò fetente spia borghese. Guardavo le attraenti ragazze del Barnard che si stracciavano le camicette e facevano ballare le loro tette nude davanti a poliziotti feroci ed esasperati, e contemporaneamente urlavano scurrili espressioni anglosassoni che le ragazze del Barnard della mia remota era non avevano mai neppure sentito. Stavo lì a osservare un gruppo di irsuti giovani della Columbia che, come di rito, pisciavano su una pila di documenti di ricerca tirati fuori dall’armadietto ben ordinato di qualche sfortunato assistente che stava per prendere il dottorato. Fu allora che mi resi conto che non ci potevano essere più speranze per l’umanità, quando anche i migliori tra noi erano capaci di trasformarsi in selvaggi scatenati in nome dell’amore, della pace e dell’uguaglianza fra gli uomini. In quelle notti buie io scrutai dentro le menti di parecchia gente e vi trovai soltanto isteria e pazzia e una volta capito, con disperazione, che stavo vivendo in un mondo dove due fazioni di matti erano in lotta fra loro per il controllo del manicomio mi allontanai per andare a vomitare in Riverside Park dopo uno scontro particolarmente sanguinoso e fui colto alla sprovvista (io, colto alla sprovvista!) da un agile borsaiolo quattordicenne che brillantemente mi alleggerì di 22 dollari.

Nel ’68 abitavo vicino alla Columbia, in un malandato alberghetto sulla 114°, dove avevo una stanza medio-grande più cucina e servizi; gli scarafaggi non entravano nel conto. Era proprio lo stesso posto in cui avevo vissuto i miei anni da matricola e da studente anziano, 1955-56. La costruzione già allora era in declino ed era un abominevole buco quando vi ritornai 12 anni dopo; il cortile era tutto disseminato di siringhe ipodermiche rotte, proprio come un altro cortile poteva essere disseminato di mozziconi. Ho una strana tendenza, masochista se volete, a tornare sui luoghi del mio passato, per quanto brutti, e quando ho bisogno di un posto in cui vivere, scelgo soltanto quello, sempre quello. Oltretutto era a buon mercato — 14 dollari e 50 la settimana — e dovevo tenermi vicino all’Università a causa del lavoro che stavo facendo, quel libro su Israele. Mi state ancora seguendo? Stavo parlandovi del mio primo “viaggio”, che di fatto poi era stato il viaggio di Toni.

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