Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Come posso spezzare questa concatenazione?

Non mi reggo in piedi. Barcollo, con le gambe allargate, i piedi piatti e spinti all’infuori, nauseato. Dov’è la porta? La maniglia si ritrae quando cerco di afferrarla. Brancolo, cercandola.

— David? — La sua voce risuona all’infinito. — David David David David David David…

— Un po’ d’aria fresca — mormoro. — Metto fuori la testa soltanto un minuto…

Non va per niente bene. Quelle immagini da incubo mi seguono attraverso la porta. Mi appoggio contro la parete che trasuda umidità, aggrappandomi a un riparo vacillante. Il cinese va alla deriva accanto a me come un fantasma. Molto lontano sento suonare il telefono. La porta del frigorifero sbatte, sbatte di nuovo, e sbatte di nuovo, e il cinese mi passa accanto per la seconda volta provenendo dalla stessa direzione, e la maniglia cerca di scappare alla mia mano, come se l’universo si ripiegasse all’indietro su se stesso, rinchiudendomi in un attimo a forma di nodo. L’entropia diminuisce. La parete verde trasuda sangue verde. Una voce, che sembra un cardo, dice: — Selig? Qualcosa non va? — È la voce di Donaldson, lo spacciatore di droga tossicomane. La sua faccia è un teschio. La sua mano sulla mia spalla è solo ossa. — Sta bene? — chiede. Scuoto la testa. Si piega verso di me finché le sue orbite vuote sono vicinissime al mio volto, e mi studia per un lungo momento. Dice: — Lei è in viaggio , caro mio! Non è vero? Ascolti, se le salta il ticchio, venga giù nella hall, le procureremo della roba che l’aiuterà.

— No. Non c’è problema.

Barcollando ritorno nella camera. La porta, diventata all’improvviso flessibile, non si vuole chiudere; la spingo con tutt’e due le mani e la tengo ferma al suo posto finché scatta la serratura a molla. Toni è ancora seduta dove l’ho lasciata io. Appare indistinta. La sua faccia è una cosa mostruosa, puro Picasso; giro la testa, sgomento.

— David?

La sua voce è fessa, aspra; sembra modulata con la sfasatura di due ottave alto e basso, con in mezzo uno spessore irregolare di lana. Agito disordinatamente, freneticamente le braccia nel tentativo di farla smettere di parlare, lei invece continua, manifesta ansietà per me, vuol sapere che cosa sta succedendo, perché esco ed entro dalla stanza. Ogni sua parola, ogni suono, è per me un tormento. E neanche le immagini smettono di fluire dalla sua alla mia mente. Quel vampiro peloso dai denti acuminati con la mia faccia, mi fissa ancora minaccioso da un angolino del suo cranio. Toni, pensavo che tu mi amassi. Toni, pensavo di farti felice. Mi lascio cadere in ginocchio e mi metto ad analizzare minutamente lo zerbino incrostato di sporcizia, vecchio di un milione di anni, un pezzo del Pleistocene, un pezzo che sta svanendo sfoltito, logoro. Lei mi viene vicino, si piega giù tutta preoccupata, lei che è in viaggio sta a preoccuparsi che stia bene il suo compagno che non è in viaggio, ma che misteriosamente è in viaggio anche lui. — Non capisco — bisbiglia. — Urli, David. Hai la faccia tutta piena di chiazze. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ti prego, non far lo scemo. Stavo facendo un viaggio così bello e adesso… non riesco proprio a capire…

Il pipistrello. Il pipistrello. Dilata le sue ali gommose. Mette a nudo i suoi denti gialli.

Addenta. Succhia. Beve.

Riesco a dire, la gola strozzata, poche parole: — Anch’io… sono… in viaggio…

La mia faccia preme contro lo zerbino. L’odore della polvere nelle mie narici. Trilobiti strisciano nel mio cervello. In mezzo a loro striscia un vampiro. Una risata stridula dal corridoio. Il telefono. La porta del frigorifero: slam, slam, slam! la danza dei cannibali sul pianerottolo. Il soffitto mi schiaccia, sulla schiena. La mia mente affamata saccheggia l’anima di Toni. Chi spia dal buco della porta, può vedere cose che gli faranno del male. Toni dice: — Hai preso l’altro acido? Quando?

— Non l’ho preso.

— Ma allora, com’è che stai viaggiando?

Non rispondo. Mi rannicchio, mi ammucchio in qualche modo, sto sudando, mi lamento. Questa è la discesa all’inferno. Huxley mi aveva messo in guardia. Io non lo volevo il viaggio di Toni. Non ho mica chiesto di vederne qualcosa. Adesso le mie difese sono distrutte. Lei mi ha sconvolto. Mi ha inghiottito.

Toni dice: — Leggi nella mia mente, David?

— Sì. — La miserabile definitiva confessione. — Ti leggo nella mente.

— Cos’hai detto?

— Ho detto che ti leggo nella mente. Posso vedere ogni pensiero. Ogni esperienza. Vedo me stesso, come tu mi vedi. Oh, Cristo, Toni, Toni, Toni, è così spaventoso!

Lei mi dà uno strattone e mi obbliga a guardarla. Alla fine alzo la faccia. La sua è orribilmente pallida; i suoi occhi sono rigidi. Chiede spiegazioni. Che cos’è questa storia di leggere nei pensieri? Ho proprio detto così, oppure è qualcosa inventato dalla sua mente oscurata dall’acido? Ho proprio detto così! Glielo ridico. Tu mi avevi chiesto se ti stavo leggendo nella mente e io ti ho risposto di sì, ti leggevo nel pensiero.

— Non ti ho chiesto niente del genere — dice lei.

— L’ho sentito io che me lo chiedevi.

— Però io non… — Adesso sta tremando. Tutti e due tremiamo. La sua voce è incolore. — Hai tentato di scroccarmi un viaggio, non è così, David? Non capisco. Che bisogno avevi di farmi del male? Perché hai buttato tutto per aria? Era così un bel viaggio. Era un così bel viaggio.

— Non per me — dissi.

— Ma tu non eri in viaggio.

— Invece ero proprio in viaggio.

Lei mi lancia un’occhiata di completa incomprensione. Si allontana da me e si butta sul letto, singhiozzando. Dalla sua mente, incuneandosi tra gli orrori grotteschi delle immagini provocate dall’acido, arriva una raffica di crude emozioni: paura, risentimento, dolore, rabbia. Pensa che io abbia deliberatamente tentato di offenderla. Adesso non posso dire niente per rimettere le cose a posto. Non potrò mai dire niente per farlo. Mi disprezza. Io per lei sono un vampiro, un succhiatore di sangue, una sanguisuga; conosce il mio dono per quello che è. Abbiamo oltrepassato una soglia fatale, e lei non penserà mai più a me senza provare angoscia e vergogna. E neppure io nei suoi riguardi. Mi precipito fuori dalla stanza, attraverso il pianerottolo, nella stanza occupata da Donaldson e Aitken: — Un terribile viaggio — mormoro. — Mi spiace di darvi noia, ma…

Restai con loro per tutto il pomeriggio. Mi diedero un tranquillante e con molta gentilezza mi aiutarono, quasi mi condussero per mano, nella fase di uscita dal viaggio. Le immagini psichedeliche, provenienti da Toni, continuarono ad arrivarmi per ancora una mezz’ora o giù di lì; come se un inesorabile cordone ombelicale ci legasse per tutta la lunghezza del corridoio; poi però, per mia consolazione, il senso del contatto cominciò a scivolar via e a svanire, e di colpo, con una specie di click udibile al momento del distacco, se ne andò completamente. I fantasmi fiammeggianti smisero di tormentare la mia anima. Colori e dimensioni e strutture ritornarono ad assumere le loro forme tipiche. E alla fine mi ritrovai libero da quella spietata immagine di me stesso, riflessa. Quando di nuovo mi ritrovai completamente solo nel mio cranio, sentii quasi il bisogno di piangere per festeggiare la liberazione, però le lacrime non volevano venire, e io restai lì, seduto, passivamente, centellinando un bromo-tranquillante. Il tempo gocciolava via. Donaldson, Aitken e io parlammo tranquillamente, educatamente e con calore di Bach, dell’arte medievale, di Richard M. Nixon, di marijuana, e di moltissime altre cose. Li conoscevo appena quei due, eppure erano disposti a dedicare il loro tempo ad alleviare le pene di un estraneo. Finalmente mi sentii bene. Poco prima delle sei, ringraziandoli con tutto il cuore, ritornai nella mia stanza. Toni non c’era. Sembrava che ci fosse qualcosa di strano, di cambiato. I libri erano caduti dagli scaffali, le stampe dalle pareti; la porta del gabinetto era spalancata e mancavano molte cose. Nel mio stato confuso, affaticato, mi ci volle un po’ di tempo per afferrare quello che era successo. Dapprima pensai a un furto con scasso, poi, però, afferrai la verità. Lei se n’era andata.

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