La zona oscura aveva cessato di allargarsi. Le forze che l’avevano provocata stavano scrutando il piccolo universo che avevano scoperto, forse per vedere se valeva la pena di occuparsene. Sottoposto a quell’indagine cosmica, Alvin non provava alcun terrore. Sapeva di trovarsi faccia a faccia con la potenza e la saggezza, di fronte alle quali l’uomo può sentire rispetto, non timore.
Ora le potenze avevano deciso… Avrebbero dedicato qualche frammento di eternità alla Terra e alla sua popolazione. Stavano penetrando dalla finestra che avevano scavato in cielo.
Faville di una fucina celestiale scendevano sulla Terra, sempre più fitte, in una pioggia di fuoco che, dall’infinito, cadeva formando pozze di luce liquida appena toccato il suolo. Alvin udì parole che suonarono al suo orecchio come una benedizione.
« Sono venuti i Grandi ».
Il fuoco raggiungeva Alvin senza bruciarlo. Era dovunque, riempiva l’immensa conca di Shalmirane del suo scintillio dorato. E Alvin si accorse che le scie luminose avevano una forma, una struttura, e formavano dei vortici. E quei vortici ruotavano sempre più rapidi intorno al proprio asse e il loro centro s’innalzava sempre più creando delle colonne di luce entro le quali si intravedevano figure misteriose ed evanescenti. Da quei totem incandescenti usciva una debole nota musicale, infinitamente lontana e suggestivamente dolce.
« Sono venuti i Grandi ».
E venne una risposta. E quando Alvin udì le parole: «I servi del Maestro vi salutano. Vi stavamo aspettando!» capì che le barriere erano cadute. In quell’istante Shalmirane e i suoi strani visitatori svanirono, e lui si trovò di nuovo alla presenza del Computer Centrale, nei sotterranei di Diaspar.
Era stata tutta un’illusione, non più reale del mondo fantastico delle saghe, dove aveva passato tante ore della sua infanzia. Ma come era stata creata? Da dove erano venute le immagini che aveva visto?
«Un problema insolito» spiegò la voce piana del Computer Centrale.
«Sapevo che il robot doveva avere in mente una concezione visuale dei Grandi. Se fossi riuscito a fargli provare la sensazione di vedere realmente quell’immagine, il resto sarebbe stato facile.»
«E come hai fatto?»
«Ho chiesto al robot una descrizione di questi Grandi, poi ho carpito lo schema che si formava nei suoi pensieri. Lo schema era incompleto e ho dovuto inventare parecchio. Un paio di volte il quadro che stavo creando ha corso il rischio di allontanarsi troppo dalla concezione del robot, ma io mi tenevo pronto a cogliere ogni segno di perplessità della macchina e a modificare l’immagine prima che il robot s’insospettisse. Il mio vantaggio è di poter usare centinaia di circuiti contro uno dei suoi, e di poter cambiare le immagini con tanta rapidità che il passaggio non si avverte. Ho usato un trucco, ma sono riuscito a saturare tutti i circuiti del robot e a sopraffare il suo senso critico. Quella che hai visto era l’immagine finale, quella che più si adattava alle descrizioni del Maestro. Il robot è rimasto convinto della sua autenticità quel tanto che bastava perché il blocco scattasse, e in quel momento sono riuscito a mettermi perfettamente in contatto con lui. Ora non è più folle; risponderà a tutte le tue domande.»
Alvin era ancora confuso. La visione di quella apocalisse gli tormentava la mente, e non riuscì a comprendere perfettamente le spiegazioni del Computer Centrale. Ma non aveva importanza il modo in cui si era compiuto quel miracolo di terapia.
Le porte della Verità si erano dunque spalancate! A un tratto Alvin ricordò l’obiezione del Computer Centrale e chiese ansioso: «Sei sempre del parere che non abbiamo il diritto di contraddire gli ordini del Maestro?».
«Ho scoperto perché erano stati dati. Il Maestro sosteneva di aver compiuto molti miracoli. I suoi discepoli gli credevano, e la loro fiducia aumentava il prestigio di lui. Ma quei miracoli avevano tutti una spiegazione semplicissima, ammesso che siano avvenuti. È sbalorditivo come persone intelligenti si siano lasciate convincere in un modo simile.»
«Dunque il Maestro era un imbroglione?»
«No, non proprio. Se fosse stato un volgare impostore, non avrebbe avuto tanto successo, e i suoi insegnamenti non sarebbero durati così a lungo.
Era un buon uomo, e molto di quel che diceva era giusto e saggio. Finì col credere lui stesso ai suoi miracoli, ma sapeva che c’era un testimone che avrebbe potuto negarli. Il robot conosceva tutti i suoi segreti; era il suo braccio destro e il suo portavoce, ma se fosse stato interrogato troppo a fondo avrebbe potuto rivelare ogni cosa. Allora gli impose di non rivelare mai ciò che sapeva fino all’ultimo giorno dell’universo, quando i Grandi sarebbero discesi. È difficile credere che nello stesso individuo potesse albergare un tale impasto di sincerità e di falsità, eppure è così.»
Alvin si chiese quali fossero i pensieri del robot in quel momento. Era di certo una macchina abbastanza complessa per nutrire un sentimento come il rancore. Poteva essere sdegnato con il Maestro che l’aveva reso suo schiavo… e altrettanto sdegnato con Alvin e il Computer Centrale per averlo guarito dalla follia con l’inganno.
La zona di silenzio era stata tolta; non c’era più bisogno di segretezza. Il momento che Alvin aspettava era alfine venuto. Il giovane si volse al robot e gli fece la domanda che lo assillava da quando aveva ascoltato il racconto della saga del Maestro.
E il robot rispose.
Jeserac lo stava aspettando pazientemente. In cima alla scala, prima di avviarsi lungo il corridoio, Alvin lanciò un’ultima occhiata alla grande sala. E l’impressione fu maggiore di quella provata poco prima. Sotto di lui si stendeva una città morta di case bianche dalle forme strane. Una città illuminata da una luce che non era fatta per gli occhi umani. Poteva essere morta, perché non aveva mai vissuto, ma pulsava di energie molto più potenti di quante avessero mai mosso una qualsiasi materia organica. Sarebbero esistite per tutta la durata del mondo, senza mai distogliere la mente dai pensieri che uomini di genio avevano affidato loro molto tempo prima.
Mentre camminavano verso la Sala del Consiglio, Jeserac cercò di fare qualche domanda, ma non venne a sapere niente del colloquio che si era svolto a pochi passi da lui. Ma non per discrezione di Alvin. Il giovane era ancora troppo scosso da tutto ciò che aveva visto, e troppo ebbro di successo, per poter svolgere una conversazione coerente. Jeserac fu costretto a usare tutta la sua pazienza, e sperare che Alvin uscisse da quello stato di trance.
Le strade di Diaspar erano illuminate da una luce che sembrava pallida al confronto di quella che brillava sulle macchine. Ma Alvin non se ne accorse, né badò alla bellezza delle torri cui passavano accanto, o agli sguardi dei suoi concittadini. Era strano, pensò, come tutto ciò che era accaduto lo avesse portato a quel momento. Dal suo incontro con Khedron, tutti gli avvenimenti sembravano essersi svolti automaticamente con uno scopo prefisso. I Monitor, Lys, Shalmirane… A ogni istante sarebbe potuto tornare sui suoi passi, ma c’era sempre stato qualcosa a spingerlo avanti. Era lui a costruirsi il suo destino, o era particolarmente favorito dal Fato? Forse non si trattava altro che di semplici probabilità, mosse dalle leggi del caso.
Qualsiasi altro avrebbe potuto trovare il sentiero che lui aveva tracciato, e in passato molti altri dovevano aver percorso quella stessa strada. Gli Unici, per esempio? Cos’era successo a loro? Forse lui era l’unico ad aver avuto fortuna.
Durante il tragitto, riuscì a stabilire un contatto sempre più diretto tra sé e la macchina liberata dal mutismo che le avevano imposto. Era sempre stata in grado di ricevere i pensieri, ma prima lui non poteva mai sapere in anticipo se avrebbe obbedito ai suoi ordini. Ora l’incertezza era scomparsa.
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