«È proprio ciò che temo» disse Alvin con amarezza.
«E pensi ancora di poterlo evitare?»
Alvin non rispose subito. Sapeva che il tutore aveva compreso le sue intenzioni, ma almeno non avrebbe potuto immaginare quali erano i suoi piani, perché non ne aveva nessuno. Era arrivato a un punto in cui poteva soltanto improvvisare, e affrontare le nuove situazioni a mano a mano che si fossero presentate.
«Mi biasimate?» domandò, e Jeserac rimase stupito dal nuovo tono di voce. Era velata da un accento di umiltà. Per la prima volta Alvin cercava l’approvazione dei suoi simili. Jeserac ne rimase colpito, ma era troppo saggio per crederci seriamente. Alvin era ancora sotto una forte tensione, e non era prudente credere che un qualsiasi miglioramento di carattere fosse permanente.
«È molto difficile dirlo» rispose Jeserac. «Io sono tentato di affermare che la sapienza ha sempre un grande valore, e indubbiamente tu hai aggiunto parecchie cose al nostro sapere. Ma hai anche aumentato i nostri pericoli, e a lungo andare, qual è la cosa più importante? Quante volte ti sei soffermato a considerare questo?»
Per un attimo, maestro e allievo rimasero a guardarsi in silenzio. Forse per la prima volta ciascuno di loro capiva con maggiore chiarezza il punto di vista dell’altro. Poi s’incamminarono lungo il corridoio che si staccava dalla Sala del Consiglio. E la loro scorta li seguì docile.
Questo luogo, pensava Alvin, non è stato fatto per l’uomo. Alla luce delle forti lampade azzurre, così abbaglianti da ferire gli occhi, i corridoi lunghi e larghi sembravano correre via all’infinito. Sotto le grandi volte i robot di Diaspar trascorrevano la loro vita eterna, e solo a intervalli di molti secoli vi risuonava un passo umano.
Quella era la città sotterranea, la città delle macchine, senza la quale Diaspar non avrebbe potuto esistere. Qualche centinaio di metri più in là, il corridoio formava una camera circolare del diametro di circa un miglio, il cui soffitto era sostenuto da grandi colonne che dovevano anche sostenere l’incredibile peso della Centrale Energia. Là, secondo la pianta, il Computer Centrale meditava incessantemente il destino di Diaspar.
La camera c’era, anche più vasta di quanto Alvin immaginasse… ma dov’era il Computer? Si era aspettato di trovare un’unica, enorme macchina. Lo spettacolo che gli si presentò lo fece fermare incerto, meravigliato.
Il corridoio dal quale erano arrivati terminava quasi all’altezza della volta, sulla più grande cavità che mai l’uomo avesse costruito. Da entrambi i lati due lunghe rampe scendevano verso il pavimento. L’immensa distesa illuminata era coperta da centinaia di grandi strutture bianche. Nessuna traccia dello scintillio familiare del metallo, che dai tempi dei tempi l’uomo aveva imparato ad associare alle macchine.
Qui si concludeva un’evoluzione lunga quasi quanto quella dell’Uomo. I suoi inizi si perdevano nelle nebbie della preistoria, quando l’Umanità aveva scoperto l’uso dell’energia, e aveva riempito il mondo di rumorosi meccanismi. Vapore, acqua, vento… Tutte le forze della Natura erano state sperimentate per un certo periodo di tempo e poi abbandonate. Per secoli l’energia della materia aveva diretto il mondo, fino al giorno in cui era stata vinta. Durante il cambiamento, le vecchie macchine erano state dimenticate, e altre nuove avevano preso il loro posto. Lentamente, in migliaia di anni, ci si era avvicinati all’ideale di macchina perfetta; quell’ideale che era stato dapprima un sogno, poi una lontana prospettiva e infine realtà: una macchina non deve contenere alcun ingranaggio mobile.
Qui c’era la più perfetta espressione di quell’ideale. Quel risultato costato all’Uomo circa cento milioni di anni di ricerche. Nell’attimo in cui aveva raggiunto quel trionfo, l’Uomo aveva voltato le spalle alle macchine per sempre. La macchina era compiuta, autosufficiente per l’eternità. Ora doveva servirlo.
Alvin non stette più a chiedersi quale di quelle bianche entità fosse il Computer Centrale. Aveva capito che esso le comprendeva tutte e che si estendeva molto al di fuori di quella sala, includendo tutte le innumerevoli macchine di Diaspar, sia mobili, sia immobili. Così come un cervello umano è la somma di milioni di cellule separate, disposte in un volume di pochi millimetri cubici, gli elementi fisici del Computer Centrale erano sparsi per tutta la lunghezza e ampiezza di Diaspar. La camera non conteneva altro che il sistema di comando per mezzo del quale tutte quelle unità disperse si mantenevano in contatto.
Incerto sul da farsi, Alvin rimase in cima al doppio salone. Il Computer Centrale doveva sapere che lui era arrivato, come sapeva tutto ciò che accadeva a Diaspar, e gli avrebbe dato istruzioni.
La voce ormai nota risuonò piano, vicinissima a lui. «Discendi la rampa sinistra» ordinò. «Di là ti dirigerò io.»
Scese lentamente, col robot che fluttuava sopra di lui. Né Jeserac né i censori lo seguirono. Chissà se avevano ricevuto l’ordine di fermarsi lì, o se invece avevano deciso che potevano benissimo sorvegliarlo dalla loro posizione privilegiata senza prendersi il disturbo della lunga discesa. O
magari non osavano avvicinarsi di più al cuore che muoveva tutta Diaspar…
Giunto ai piedi della rampa, Alvin, sempre seguendo le istruzioni della voce, si avviò tra due file di forme titaniche. Tre volte seguì gli ordini della voce, finché comprese di aver raggiunto il suo obiettivo.
La macchina davanti alla quale si era fermato era più piccola di molte sue compagne, ma sempre gigantesca. I cinque ordini di meccanismi sovrapposti le davano l’aspetto di un mostro accucciato, e Alvin, girando un attimo lo sguardo verso il suo robot, stentò quasi a credere che i due fossero il prodotto di una stessa evoluzione, e che entrambi venissero definiti con la stessa parola. A circa un metro dal suolo un grande pannello trasparente correva lungo l’intera struttura. Alvin premette la fronte contro la sostanza liscia e stranamente calda e gettò un’occhiata all’interno. Dal principio non vide nulla; poi, stringendo le palpebre, distinse migliaia di deboli punti luminosi sospesi nel vuoto. Erano allineati uno dietro l’altro in una grata tridimensionale, misteriosa ed immobile come una costellazione. Alvin restò così parecchi minuti, dimentico del tempo che passava, ma i punti luminosi non si mossero e il loro splendore rimase immutato.
Alvin si rese conto che se avesse potuto guardare dentro il suo cervello non ne avrebbe certamente capito la complessità. La macchina gli sembrava immobile e inerte perché lui non poteva vederne i pensieri.
Per la prima volta ebbe una pallida idea delle forze che governavano la città. Per tutta la sua vita aveva accettato, senza farsi domande, l’esistenza dei sintetizzatori che da secoli provvedevano agli infiniti bisogni di Diaspar. Migliaia di volte aveva visto crearsi qualcosa, e solo di rado aveva pensato che in qualche luogo doveva esistere il prototipo di ciò che aveva visto comparire nel mondo.
Come la mente umana può soffermarsi per qualche istante sopra un singolo pensiero, così il cervello infinitamente più grande, che era soltanto una parte del Computer Centrale, poteva afferrare e ritenere per sempre le idee più complicate. Gli schemi di tutte le cose create erano conservati in quella mente eterna, e bastava soltanto la volontà di un uomo per far sì che quegli schemi diventassero una realtà.
Il mondo aveva fatto strada, dal giorno in cui l’uomo delle caverne impiegava ore e ore per ricavare dalla pietra la punta delle sue frecce e i coltelli…
Alvin attese, non osando parlare finché non avesse ricevuto un cenno di autorizzazione. Si chiedeva come il Computer Centrale potesse rendersi conto della sua presenza, e vederlo, e udire la sua voce. Mancava qualsiasi traccia di organi sensori: né le griglie, né gli schermi, né gli occhi di cristallo attraverso i quali solitamente i robot prendono visione del mondo che li circonda.
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