Le grandi porte si spalancarono, e Alvin seguì Jeserac nella Sala del Consiglio. I venti membri erano già seduti attorno al loro tavolo a forma di mezzaluna, e Alvin si sentì lusingato che non ci fosse un solo posto vuoto.
Doveva essere la prima volta dopo secoli e secoli che il Consiglio si riuniva al completo, senza una sola assenza. Le loro riunioni erano, di solito, pure formalità. Tutti gli affari ordinari venivano normalmente sbrigati con poche chiamate per visifono e, se necessario, con un colloquio fra il presidente e il Computer Centrale.
Alvin conosceva di vista la maggior parte dei membri del Consiglio, e la presenza di tante facce familiari lo rassicurò. Non sembravano ostili. Soltanto ansiosi e a disagio, come Jeserac. In fondo erano tutti uomini ragionevoli. Potevano essere seccati che qualcuno avesse provato che erano in errore, ma Alvin non credeva che avrebbero avuto risentimento per lui.
Questa, una volta, sarebbe stata una supposizione avventata, ma la natura umana, sotto certi aspetti, era di molto migliorata.
Lo avrebbero ascoltato attentamente, ma quello che pensavano loro non aveva importanza. Questa volta non sarebbe stato il Consiglio a giudicarlo, ma il Computer Centrale stesso.
Non ci furono formalità. Il Presidente dichiarò aperta la seduta e si rivolse ad Alvin.
«Alvin» disse, in tono cortese «vorremmo che tu ci dicessi cosa ti è accaduto da quando sei scomparso, dieci giorni orsono.»
Ad Alvin non sfuggì l’implicito senso della parola «scomparso». Nonostante tutto, il Consiglio era riluttante ad ammettere che lui fosse veramente uscito da Diaspar. Chissà se la presenza di stranieri in città era stata notata? Ne dubitava fortemente. In questo caso avrebbero dimostrato un allarme considerevolmente maggiore.
Raccontò la sua storia con chiarezza e senza drammatizzare. Alterò solo un punto, quello che si riferiva al modo come aveva lasciato Lys. Meglio tener segreto l’espediente: poteva servirgli in un’altra occasione.
Fu interessante osservare come gli atteggiamenti dei membri del Consiglio cambiassero durante il corso della sua narrazione. In un primo tempo si dimostrarono scettici, rifiutandosi di accettare la negazione di tutto ciò in cui avevano creduto, la violazione dei loro più profondi pregiudizi.
Quando Alvin parlò del suo grande desiderio di esplorare il mondo che stava oltre la città, e della sua irrazionale convinzione che questo mondo doveva esistere, lo fissarono come fosse stato un essere incomprensibile.
In effetti, secondo loro, lo era. Ma alla fine furono costretti ad ammettere che aveva ragione, e che lo sbaglio era stato loro. Col procedere del racconto di Alvin, tutti i dubbi si dissolsero lentamente. Potevano non gradire la verità, ma era impossibile negarla. Se fossero stati tentati di farlo, sarebbe bastato dare un’occhiata al silenzioso compagno di Alvin.
Solo un particolare del racconto sollevò l’indignazione generale, ma non sul conto di Alvin. Un mormorio di disapprovazione si levò nella sala quando il giovane parlò del timore di Lys circa eventuali contatti con Diaspar e dei passi che Seranis aveva fatto per impedire una simile catastrofe.
La città era orgogliosa della propria cultura, e che qualcuno potesse trattare da inferiori i cittadini di Diaspar era più di quanto il Consiglio riuscisse a tollerare.
Alvin chiamò a raccolta tutto il suo tatto; voleva, per quanto fosse possibile, portare il Consiglio dalla sua. Prima di tutto cercò di dare l’impressione di non vedere nulla di male in ciò che aveva fatto e di aspettarsi delle lodi, non del biasimo per le sue scoperte. Era la miglior tattica che avrebbe potuto adottare, poiché servì a disarmare la maggior parte dei possibili critici. Inoltre sortì l’effetto, sebbene ciò non fosse nelle intenzioni di Alvin, di trasferire ogni rimprovero sullo scomparso Khedron. Alvin, secondo il pensiero dei giudici, era troppo giovane per misurare i pericoli cui stava andando incontro. Il Buffone, invece, avrebbe dovuto agire con maggior prudenza, avendo dimostrato così di essere completamente irresponsabile.
Ancora non sapevano quanto il Buffone stesso fosse d’accordo con loro.
Lo stesso Jeserac, quale tutore di Alvin, fu spesso bersaglio di occhiate severe da parte dei consiglieri. Lui se ne accorgeva, ma non se ne dava per inteso. C’era un certo onore nell’aver istruito la mente più originale che fosse nata a Diaspar, e niente poteva togliere a Jeserac questa soddisfazione.
Solo quand’ebbe terminato l’esposizione dei fatti, Alvin passò all’attacco diretto. Avrebbe dovuto in qualche modo convincere quegli uomini delle verità imparate a Lys. Ma come avrebbe potuto far loro veramente capire cose che non avevano mai visto e che non avrebbero potuto immaginare?
«È tragico» cominciò «che i due popoli superstiti della specie umana siano rimasti separati per un periodo così enormemente lungo. Un giorno, forse, sapremo come questo è accaduto, ma oggi quello che conta è riparare la frattura… impedire che si approfondisca. Quando ero a Lys ho protestato contro il loro modo di vedere, che essi, cioè, si sentissero superiori a noi; possono avere molto da insegnarci, ma anche noi abbiamo molto da insegnar loro. E se entrambi crediamo di non aver nulla da imparare dall’altro, non è evidente che siamo entrambi in errore?»
Tacque, guardò attorno e si sentì incoraggiato a continuare.
«I nostri antenati» riprese «hanno fondato un impero esteso fino alle stelle. Ora i loro discendenti temono di spingersi oltre le mura della loro città. Devo dirvi perché? " Pausa. Nell’enorme salone tutti tacevano immobili.
«Perché abbiamo paura… di qualcosa che è avvenuto al principio della storia. La verità mi è stata detta a Lys, sebbene la sospettassi già da lungo tempo. Dobbiamo nasconderci per sempre a Diaspar come codardi, fingendo di credere che ai mondo non esista altro… solo perché un miliardo di anni fa gli Invasori ci hanno costretti a ritornare sulla Terra?»
Aveva messo il dito sulla piaga, quel timore che non aveva mai condiviso e che non avrebbe mai potuto interamente comprendere. E ora facessero pure quel che volevano. Lui, la verità l’aveva detta.
Il Presidente lo fissò con aria grave.
«Hai altro da aggiungere» chiese «prima che noi consideriamo il da farsi?»
«Una cosa ancora. Vorrei portare questo robot alla presenza del Computer Centrale.»
«Ma perché? Sai che il Computer è già al corrente di tutto ciò che accade in questa camera.»
«Desidero farlo ugualmente» replicò Alvin cortese ma fermo. «Ne chiedo l’autorizzazione al Consiglio e al Computer.»
Prima che il Presidente potesse ribattere, una voce calma e chiara risuonò nel salone. Alvin non l’aveva mai udita in vita sua, ma capì subito a cosa appartenesse. Le macchine informative, che altro non erano che accessori esterni di quella grande intelligenza, potevano parlare agli uomini, ma non possedevano quell’accento inconfondibile di saggezza e di autorità.
«Lasciatelo venire da me» acconsentì il Computer Centrale.
Alvin guardò il Presidente. Ebbe il buon gusto di non mostrare soddisfazione per quella vittoria, e si limitò a chiedere: «Mi accordate il permesso di allontanarmi?».
«Vai pure. Il tuo tutore e i censori ti accompagneranno e ti riporteranno qui appena avremo terminato di discutere.»
Alvin fece un cenno di ringraziamento, le grandi porte gli si spalancarono di fronte, e il giovane uscì lentamente dalla Sala. Jeserac lo seguì, e quando le porte si chiusero alle loro spalle, Alvin si girò verso il tutore.
«Cosa farà il Consiglio?» domandò con ansia.
Jeserac sorrise.
«Sempre impaziente, vero? Non so se la mia supposizione sia giusta, ma immagino che finiranno col decidere di chiudere la Tomba di Yarlan Zey, in modo che tu non possa più ripetere il viaggio. Poi Diaspar potrà continuare la sua vita, senza venire mai disturbata dal mondo esterno.»
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