«Non me ne importa un corno» disse in tono sferzante «dei rapporti, ammesso che ce ne siano, tra la signorina Wilkins e il capitano… ammettiamolo pure! Sono affari loro, e finché continuano a fare il loro dovere noi non abbiamo nessun diritto di immischiarcene. Volete forse insinuare che il capitano Harris non fa il suo dovere?»
«Be’… non ho detto questo.»
«E allora non dite niente, che sarà meglio. Nella nostra situazione, non abbiamo davvero bisogno di crearci ulteriori problemi.»
Gli altri passeggeri avevano ascoltato con un misto di imbarazzo e di divertimento, come capita spesso a chi è semplice spettatore di un litigio. Eppure, in realtà, quello scontro riguardava tutti i passeggeri del Selene, perché era la prima sfida contro l’autorità costituita, il primo segno che la disciplina scricchiolava. Fino a quel momento, il gruppo era stato compatto e concorde; ma ora si era levata una voce contro gli Anziani della Tribù.
La signorina Morley era forse una zitellona nevrastenica, ma era anche una donna decisa e battagliera. Il commodoro capì, con comprensibile allarme, che l’altra si preparava a rispondergli.
Nessuno seppe mai che cosa la Morley avesse intenzione di ribattere; in quel preciso istante, la signora Schuster mandò un grido perfettamente proporzionato alle sue generose dimensioni.
Quando un uomo cade sulla Luna, di solito ha il tempo di aiutarsi in qualche modo, perché ha i nervi e i muscoli fatti per lottare contro una gravità sei volte maggiore. Ma quando l’ingegnere capo Lawrence precipitò dalla slitta, la distanza era così breve che il poveretto non ebbe tempo di reagire. Un attimo dopo toccava la polvere… e sprofondava nell’oscurità.
Non si vedeva nulla; salvo il lieve chiarore dei quadranti luminosi sistemati all’interno della tuta. Con estrema cautela, cominciò a brancolare nella sostanza semifluida e semiresistente in cui era piombato, cercando un appiglio al quale aggrapparsi. Non c’era nulla; Lawrence non sapeva più da che parte fosse la superficie.
Quasi subito la disperazione si impadronì di lui, annebbiandogli la mente e svuotandolo di tutte le sue forze. Il cuore gli martellava a colpi disordinati, annunciando il panico totale e la perdita di ogni capacità di ragionare. Aveva visto altri uomini trasformarsi in animali capaci solo di dibattersi urlando e sapeva che stava per diventare come loro. Riusciva ancora a ricordare che solo pochi minuti prima aveva salvato Lawson da una sorte analoga, ma non era certo in grado di apprezzare l’ironia della cosa. Doveva concentrare le poche forze che gli restavano per riprendere il dominio di sé e calmare i battiti frenetici del suo cuore. Poi, alto e chiaro, dagli altoparlanti del suo casco venne un suono così inaspettato che l’ondata di panico si smorzò di colpo. Era Tom Lawson che rideva a crepapelle.
La risata fu breve e seguita immediatamente da qualche parola di scusa. «Perdonate, ingegnere… non ho saputo trattenermi. Siete così buffo! Non fate altro che agitare le gambe in aria.»
In Lawrence la collera sostituì di colpo il panico. Ce l’aveva con Lawson, ma soprattutto ce l’aveva con se stesso.
Chissà perché si era agitato tanto: non correva proprio nessun pericolo. Dentro la tuta gonfia d’aria, era come un pallone galleggiante sull’acqua. Impossibile che affondasse. Ora che aveva capito com’era andata, era in grado di cavarsela da sé. Scalciò con decisione, remigò con le mani, roteò attorno al proprio centro di gravità, e subito il suo campo visivo tornò sgombro, mentre la polvere pioveva via dal casco. Era sprofondato di dieci centimetri al massimo, e la slitta era sempre lì a portata di mano.
Chiamando a raccolta tutta la sua dignità, Lawrence si aggrappò all’imbarcazione e si issò a bordo. Non si fidava di parlare, perché ansava ancora dopo tutti quegli sforzi inutili, e la voce poteva tradire lo spavento preso.
Tornato al suo posto, ricominciò a usare la sonda, e intanto la collera e i residui di terrore lasciavano lentamente il posto a una serie di riflessioni. Lawrence si rendeva conto che. gli piacesse o no, gli eventi dell’ultima mezz’ora l’avevano legato a Tom Lawson con vincoli d’amicizia. D’accordo, l’astronomo aveva riso vedendolo brancolare nella polvere, ma certo lui doveva aver offerto uno spettacolo buffo. E Lawson gli aveva fatto le sue scuse per quell’accesso di ilarità. Soltanto qualche ora prima, risata e scuse sarebbero state addirittura inconcepibili.
Poi Lawrence si dimenticò di tutto e di tutti. La sonda aveva urtato contro un ostacolo, a quindici metri di profondità.
Quando la signora Schuster gridò, la prima reazione del commodoro Hansteen fu: «Misericordia, ha un attacco isterico!». Mezzo secondo dopo, doveva fare appello a tutte le sue forze per non unire le sue grida a quelle della donna.
Dall’esterno dello scafo, dove da tre giorni non c’era stato altro suono che il fruscio lievissimo della polvere, era finalmente arrivato un rumore. Era inconfondibile, come natura e come significato. Qualcosa di metallico aveva urtato contro lo scafo.
«Ci hanno trovati» disse «ma forse non lo sanno ancora. Se ci mettiamo al lavoro tutti insieme, forse avranno maggiori probabilità di individuarci. Pat… voi alla radio. Il resto di noi batterà contro lo scafo usando il vecchio alfabeto Morse. Tre colpi brevi, uno lungo, e uno breve: ti ti ti ta ti, che significa: «Ho capito»… Forza, tutti insieme!»
Il Selene cominciò a echeggiare di una serie confusa di punti e di linee, che lentamente si fusero in un solo ritmo ordinato.
«Alt!» ordinò il commodoro dopo un minuto. «Ascoltiamo tutti attentamente!»
Dopo il rumore, il silenzio fu assoluto, quasi ossessionante, Pat aveva chiuso le pompe dell’aria e i ventilatori, così che l’unico suono a bordo era il battito di ventidue cuori.
Il silenzio si prolungava. Possibile che quel rumore non fosse stato altro che una contrazione o un’espansione dello scafo stesso? O forse la squadra di soccorso, se pure era una squadra di soccorso, non si era accorta di averli trovati e aveva tirato avanti senza fermarsi?
Bruscamente, lo sfregamento metallico ricominciò. Hansteen calmò le esclamazioni di entusiasmo facendo cenni disperati.
«Ascoltatemi, per amore del Cielo» pregò. «Vediamo se possiamo capire di cosa si tratta.»
Il rumore metallico durò solo pochi secondi, e venne seguito di nuovo da un silenzio di agonia. Poi qualcuno osservò tranquillamente, più per rompere la tensione che per dire qualcosa di utile: «Sembrava un cavo trascinato lungo lo scafo. Forse stanno cercando di imbragarci.»
«Impossibile» spiegò Pat. «La resistenza sarebbe troppo grande, specie a questa profondità. È più probabile che si tratti di una sonda.»
«In ogni modo» concluse il commodoro «c’è una squadra di soccorso a pochi metri da noi. Proviamo a battere di nuovo. Tutti insieme, via…»
Ti ti ti ta ti… ti ti ti ta ti…
Dal sedile del pilota, Pat Harris ripeteva all’infinito, con disperata urgenza: «Qui Selene… ci sentite? Passo.» E poi ascoltava per quindici secondi prima di ritornare a trasmettere. Ma l’etere rimaneva muto, come sempre da quando il mare di polvere li aveva inghiottiti.
A bordo dell’Auriga, Maurice Spenser guardava ansiosamente l’orologio.
«Maledizione, le slitte dovrebbero essere sul posto già da un pezzo. Quanto tempo è passato dalla loro ultima comunicazione?»
«Venticinque minuti» rispose il radiotelegrafista. «Tra poco dovrebbe esserci di nuovo il segnale che trasmettono ogni mezz’ora.»
«Siete sicuro di essere sulla lunghezza d’onda giusta?»
«Sentite, voi badate al vostro mestiere, che io bado al mio» replicò indignato il radiotelegrafista.
«Scusate. Ho i nervi a fiori di pelle» rispose Spenser.
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