«Restate qui» disse Lawrence. «Io vado avanti con la Slitta Uno. Avvertitemi quando saremo al centro esatto della chiazza.»
«Pensate che sia pericoloso?»
«Veramente non credo, ma è inutile correre dei rischi in quattro.»
Lentamente la slitta dell’ingegnere si portò verso l’enigmatica zona luminosa… così appariscente sullo schermo del rivelatore, eppure completamente invisibile a occhio nudo.
«Un po’ a sinistra» ordinò Tom. «Ancora qualche metro… quasi ci siete… Là!»
Lawrence fissò la polvere grigia sulla quale la slitta galleggiava. A prima vista gli sembrò uniforme e neutra come ogni altra zona del mare; poi, guardandola meglio, vide qualcosa che gli fece venire la pelle d’oca. A un esame attento, la polvere mostrava un finissimo disegno color saleepepe. E quel disegno si muoveva; la superficie del Mare della Polvere avanzava lentissimamente verso di lui, come spinta da un vento invisibile.
A Lawrence quel fatto non piacque. Sulla Luna, s’imparava a diffidare di tutto ciò che si presentava misterioso e anormale; in genere voleva dire che qualcosa non andava… oppure che c’erano guai in vista.
«Meglio tenersi alla larga» avvertì. «Qui c’è qualcosa di strano, che non capisco.» Descrisse il fenomeno a Lawson che ci pensò su e rispose quasi subito: «Dite che sembra una fontana nella polvere? Ma lo è. Sappiamo già che lì sotto c’è una fonte di calore… si vede che è abbastanza forte da provocare una corrente di convezione.»
«Cosa può essere? Il Selene? Non credo.»
«Un momento… Un veicolo con ventidue passeggeri e parecchi macchinari… Be’, dovrebbe produrre una discreta quantità di calore. Tre o quattro kilowatts, come minimo. Se la polvere sta in equilibrio, potrebbero essere sufficienti a provocare una fontana.»
A Lawrence l’idea sembrava infondata, ma ormai era disposto ad aggrapparsi anche al filo più tenue. Prese la sottile sonda telescopica di metallo e la conficcò nella polvere. Dapprima lo strumento penetrò senza incontrare resistenza, ma via via che si allungava, l’operazione divenne sempre più ardua. Prima che la sonda fosse spiegata fino alla lunghezza massima di venti metri, si trovarono a doverla spingere con tutte le forze.
Infine l’estremità superiore sparì sotto la polvere; Lawrence non aveva incontrato nulla… ma non si aspettava certo di riuscire al primo tentativo. Avrebbe dovuto ripetere l’operazione scientificamente, seguendo uno schema ordinato.
A bordo della slitta percorsero la zona avanti e indietro, tracciando una rete di linee incrociate con strisce parallele di nastro bianco distanti cinque metri l’una dall’altra. Poi, come un antico piantatore di patate, Lawrence cominciò ad avanzare lungo la prima striscia, saggiando la polvere con la sonda. Era un lavoro lento, perché andava fatto scrupolosamente. Lawrence si sentiva come un cieco che scandagli le tenebre con una bacchetta sottile e flessibile. Se ciò che cercava si trovava oltre la portata della sua bacchetta, avrebbe dovuto studiare un altro sistema. Ma per adesso era inutile pensarci.
I sondaggi continuavano da una decina di minuti, quando avvenne un incidente. La resistenza della polvere costringeva Lawrence a far forza con le mani, specie quando la sonda giungeva al limite della sua estensione. Stava spingendo con ogni energia e si era sporto oltre il bordo della slitta: tutt’a un tratto perse l’equilibrio e finì lungo disteso nella polvere.
Appena uscì dal compartimento stagno, Pat si accorse che l’atmosfera era cambiata. La lettura di L’arancia e la mela era finita da qualche minuto, ed era in corso una discussione molto accesa. Le voci tacquero al suo apparire, e nel silenzio carico d’imbarazzo che seguì Pat fece correre lo sguardo lungo la cabina. Qualcuno dei passeggeri lo stava scrutando con la coda dell’occhio, altri fingevano di non badare a lui.
«Allora, commodoro» domandò Pat. «Che cosa succede?»
«Qualcuno afferma» spiegò il commodoro «che qui non si faccia tutto il possibile per uscire da questa situazione. Ho detto che non possiamo fare altro e che dobbiamo aspettare che ci trovino… ma non tutti sono d’accordo.»
Prima o poi doveva succedere, pensò Pat. Il tempo passava, non accadeva nulla e i nervi cominciavano a cedere. Nasceva la smania di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa… La nostra natura non ci consente di restare a braccia conserte di fronte alla morte imminente.
«Abbiamo già detto e ridetto queste cose» replicò in tono stanco. «Siamo a dieci metri almeno di profondità, e anche se aprissimo il portello stagno nessuno potrebbe arrivare alla superficie vincendo la resistenza della polvere.»
«Ne siete proprio sicuro?» domandò qualcuno.
«Sicurissimo. Avete mai provato a nuotare attraverso la polvere? Non si fa molta strada.»
«E se tentassimo con i motori?»
«Non ci muoveremmo di un centimetro. E in ogni caso ci sposteremmo in avanti, non all’insù.»
«Potremmo radunarci tutti sul fondo; il peso a poppa farebbe sollevare la prua.»
«È la pressione contro lo scafo che mi preoccupa» spiegò Pat. «Ammettiamo che facessi girare al massimo i motori: sarebbe come picchiare contro una muraglia di mattoni. Lo sa il Cielo il danno che potrebbe derivarne allo scafo.»
«Ma può anche darsi che funzioni. Non vi pare che valga la pena di correre il rischio?»
Pat guardò il commodoro, un po’ seccato perché l’altro non si decideva a venirgli in aiuto. Hansteen lo fissò bene in faccia, come per dire: «Me la sono cavata fin qua… ora tocca a te». Be’, era giusto… specie alla luce di quello che gli aveva detto Sue. Era tempo di prendere posizione, o di dimostrare che era in grado di farlo.
«È un rischio troppo grande» dichiarò in tono perentorio. «Qui stiamo perfettamente al sicuro per almeno altri quattro giorni, e molto prima di quel termine ci avranno trovati. Quindi non c’è motivo di tentare un’operazione che ha una probabilità su un milione di riuscire. Se fosse la nostra ultima risorsa direi di sì… ma non lo è.»
Si guardò attorno, sfidando chiunque a contraddirlo: non poteva fare a meno di incontrare lo sguardo della signorina Morley, né tentò di evitarlo. Tuttavia, con sua grande sorpresa e imbarazzo, la sentì dichiarare: «Forse il capitano non ha troppa fretta di andarsene. Ho notato che ultimamente non l’abbiamo visto molto… e nemmeno la signorina Wilkins.»
«Brutta strega della malora» pensò Pat. «Solo perché non c’è mai stato un cane che…»
«Calma, Harris!» disse il commodoro, appena in tempo. «Questa me la sbrigo io.»
Era la prima volta che Hansteen faceva valere tutta la sua autorità; finora aveva sempre condotto le cose con calma e bonarietà, o si era tenuto nell’ombra lasciando che Pat desse lui le disposizioni. Ma ora la sua voce era quella del comando e squillò come una tromba su un campo di battaglia. Non era più un astronauta a riposo che parlava; era il commodoro dello Spazio.
«Signorina Morley» tuonò «questa osservazione è molto sciocca e assolutamente gratuita. Soltanto il fatto che ci troviamo tutti in preda a una grande tensione può almeno in parte giustificarla. Ritengo che dobbiate fare le vostre scuse al capitano…»
«Quello che ho detto è la pura verità» replicò ostinata la donna. «Che provi a negarlo, se osa.»
In trent’anni di servizio, il commodoro Hansteen non aveva mai perso il controllo di sé e non aveva nessuna intenzione di perderlo adesso. Ma sapeva come fingere d’averlo perso, e in questo caso la simulazione non gli sarebbe costata una gran fatica. Non solo era irritato con la Morley, ma anche con Pat. Certo, l’accusa della Morley poteva essere completamente infondata, ma non si poteva negare che Pat e Sue fossero rimasti per un bel pezzo chiusi in quel maledetto compartimento. Ci sono occasioni in cui sembrare innocenti è più importante che esserlo davvero; Hansteen ricordò un antico proverbio cinese: «Non chinarti ad allacciarti le scarpe nel campo di meloni del tuo vicino».
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