Una collana di fiori dorati le cingeva le spalle e rampicanti fioriti formavano un’ampia veste che l’avvolgeva come una tunica. Un nauseante profumo di nettare aleggiava intorno a lei.
Lentamente la ragazza smise di contemplare il cielo, guardò in basso e rotolò giù dal ramo. Prima di toccare l’acqua, con un gran frullare d’ali simile al suono di un tamburo impazzito, si librò nell’aria, sfiorando lo stagno solo con la punta dei piedi.
Danzò e piroettò in alto, sopra i rami del salice. Si innalzò fino a diventare un puntino in un mare sempre più blu e continuò a salire e salire finché scomparve. Sebbene non ci fosse vento, i rami del salice sembrarono muoversi, poi fremettero e iniziarono a scuotere l’aria cercando di afferrare sette petali color rosa che scendevano fluttuando dal cielo.
Poi la ragazza precipitò. Il suo viso esprimeva con terrificante chiarezza un grande dolore. Il petto ansimava come per mancanza d’aria. Le minuscole mani afferravano convulsamente l’aria e le gambe si dibattevano. Ma la ragazza continuò a cadere nel vuoto come risucchiata da un vortice. Solo all’ultimo istante, quando sembrava ormai inevitabile che lei si schiantasse al suolo, il battito delle ali cominciò a produrre un effetto. La caduta rallentò; singhiozzando, la ragazza afferrò i rami del salice e vi rimase appesa, mentre i capelli le ricadevano sugli occhi e le ghirlande pendevano, strappate.
Tornò a sdraiarsi sul basso ramo del salice piangente. Le ali azzurrine, percorse da un leggero fremito, si ripiegarono, fragili e inutili. Le sue lacrime incresparono la superficie dello stagno, rigandole le guance mentre scrutava il cielo cristallino fra l’amorosa chioma dell’albero.
— Era una driade — spiegò il cantore di sogni dopo che l’immagine scomparve. — Era legata all’albero, non poteva lasciarlo. Per questo le ali non le erano di nessuna utilità.
— Hai dei bellissimi sogni — gli dissi.
— Non sono io — rispose. — Sei tu che hai dei bei sogni. Tu e tuo fratello. Tutti e due. Sono tutti sogni vostri.
— Non ne hai nessuno tuo? — gli chiesi.
— Solo uno.
— Raccontamelo.
— Questo è mio. Però l’arpa deve suonare ugualmente. Ascoltate.
Le nuove note mi colpirono le orecchie e mi riempirono gli occhi di lacrime. Cantava con una nuova voce, una voce che era allo stesso tempo sconosciuta e familiare, tanto che mi toccai le labbra per vedere se fossi stato io a cantare e non lui. Mi calmai quando la musica s’impadronì di me, si concentrò sul mio essere, mi turbinò attorno. Per un istante mi chiesi se anch’io facessi parte del cantore di sogni, se anch’io fossi un personaggio delle sue storie. Poi ci fu solo la musica…
Ero in un giardino con fontane dorate sormontate da pennacchi di vapore e sottili spruzzi d’acqua. Ero venuto a cercare qualcosa che con gli anni avevo dimenticato. Ed ero venuto anche a cercare qualcosa di nuovo, qualcosa che esisteva solo in quel giardino e in quel momento. Ero venuto a cercare qualcosa che mi ero lasciato alle spalle molto tempo prima. Un viso, un ricordo, una persona. Ero venuto a seppellire i miei rimpianti, a ripensare a un amore che sarebbe potuto essere mio e a chiedermi perché, tanto tempo prima, lo avevo perso. Sapevo perché. L’ambizione, o qualcosa di simile, mi aveva portato tra braccia infide e condotto lontano per inseguire un fuoco fatuo, un sogno vano di cui nemmeno conoscevo la forma.
Non ero venuto a chiedere perdono, ma speranza. Che, tra le due cose, lo sapevo bene, era la più importante, poiché tornare nei ricordi è impossibile, mentre sapere che il futuro ha ancora in serbo qualcosa per te è fede. Mi chiedevo per quale ragione mi battesse il cuore, per quale ragione continuassi a brancolare nel buio cercando la luce del giorno.
Si dice che la speranza batta eternamente nel petto dell’uomo, ma io sapevo che non è così. Infatti non nutrivo più speranza: il mio cuore era prigioniero del rimorso e non avevo sogni da realizzare. Avevo cercato la piena affermazione di me stesso, ma ero giunto alla conclusione che la potevo trovare solo lì, nel giardino.
Chiesi di fendere con il suono e con la vista la nebbia che mi avvolgeva. Chiesi di essere liberato dalla mia prigionia. Chiesi a un ricordo di schiudere le labbra di lei, di lasciarmi udire le lacrime nei suoi occhi. Chiesi speranza.
Non udii altro che il sibilo indifferente della fontana. Ma poi avvenne qualcosa di nuovo, qualcosa di strano. Le maree del tempo cambiavano direzione. L’aria aveva ali di canto…
— Matthew — era la voce di John. — È solo un sogno. È finito.
Vedevo ancora il villaggio vicino ai tre picchi.
Sentivo ancora il suono magico dell’arpa.
Mi voltai verso il cantore di sogni, i cui occhi erano nascosti dalle folte sopracciglia bianche.
— Quel sogno era tuo o mio? — gli domandai.
— Mio, te l’ho già detto — rispose. — Ma forse anche tuo. Per quale motivo non possiamo trovare noi stessi nei sogni altrui?
Gli ultimi brandelli del sogno svanirono dalla mia mente. Le corde dell’arpa sospiravano nel vento, ma io sapevo che già da tempo avevano smesso di vibrare.
— Com’è finito? — gli chiesi. — Dove è finito? — Alla fine del sogno non ero più sicuro di quello che avevo visto, se fosse stato frutto della mia immaginazione o no.
Il cantore di sogni sollevò lo sguardo e vidi i suoi occhi. Erano viola scuro, il colore del cielo della sera. Erano umidi di lacrime e le pupille sembravano capocchie di spillo. Rimasi immobile, non provai a riprendermi da quello stato di intenso shock emotivo in cui mi aveva lasciato il sogno. In quel momento pensai di essere vicino alla morte.
— Lei era morta — disse semplicemente il cantore di sogni.
Nessuna ricompensa. Nessuna redenzione. Nessuna speranza. Nessun ritorno. Una sola direzione. USCITA dall’altra parte della porta.
— Era morta.
Quelle parole, pronunciate per la seconda volta, finalmente mi raggiunsero: barcollai in preda alle vertigini. I miei pensieri erano confusi, mescolati a strane emozioni e nuove implicazioni.
John mi abbracciò.
— Non l’hai visto? — gli chiesi.
— Ero lì.
— Era il mio sogno.
— Sì, lo so. Me lo ricordo.
— Era il mio sogno.
— Era anche il suo — disse John. — Non sei solo. Non c’è niente di nuovo.
— Non ci credo.
— No — disse — suppongo di no.
Il cantore di sogni rimase seduto, immobile come una statua di marmo, ancora un minuto. Poi il suo vecchio corpo parve semplicemente afflosciarsi. Le labbra tremarono, i fili bianchi della barba vibrarono come corde d’arpa. La schiena sussultò, mentre lunghi, dolorosi singhiozzi minacciavano di schiantare quelle vecchie ossa.
— Era morta — ripetei lentamente, e cominciai a capire.
La torre si ergeva solitaria nell’oceano come un ago conficcato nella sonnolenta superficie di un mare color del vino. L’acqua, di un rosso cupo, rifletteva l’immagine di un cielo rossastro.
Le nuvole, simili a grandi chiazze marrone bruciato, si trascinavano stancamente per il cielo unendosi e staccandosi, e lasciavano nell’umida atmosfera una scia di perle rubiconde frutto della traspirazione aerea. Nella parte di cielo scoperta comparivano strisce e striature, macchie e chiazze di rosa tenue, di rosso acceso e di un bel rosso magenta. All’orizzonte la polvere sembrava un fastoso drappeggio che rifletteva la luce rossastra del cielo e delle nuvole.
Il mare pareva uno specchio di vetro fuso rosso ciliegia dai riflessi accesi, calmo e immobile come uno stagno. Non c’era vento a turbare la sua serenità, niente era visibile sotto la sua piatta distesa. Non galleggiavano alghe, né si vedevano guizzi di pesci argentati intorno alla base cilindrica della torre.
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