— Matthew — disse Joaz in un sussurro roco, pressante. John, dietro a lui, si teneva tra le mani la testa, come ubriaco.
— Sì.
— Siamo alla deriva. Alla deriva nel caos. Non è il futuro. Non lo è. Non c’è più alcun futuro. Il tempo si è fermato del tutto e la nostra percezione non è più affidabile. Trova l’Uomo Futuro, Matthew. Trovalo e dal caos scaturirà di nuovo l’ordine. Ma devi trovarlo.
— Lo troveremo, Joaz — promisi. — Lo troveremo.
Prima di morire, Joaz guardò John un’ultima volta. — Bada a lui, Matthew — disse.
— Lo farò — promisi ancora.
C’è musica nella mia anima e poesia nel mio cuore…
Il sole, simile a una lanterna, pendeva stancamente nel cielo lilla e scivolava a poco a poco verso ovest. La musica aleggiò nell’aria umida. Madido in viso, risalii la collina. John era appena dietro a me.
Ma la musica è una parodia, la poesia una falsa riflessione…
Le note sembravano giungere da molto lontano anche se chi cantava non era distante. L’emozione che risvegliavano nella mia mente mi era sconosciuta, ma in un certo qual modo la identificai come nostalgia.
Nessun uomo che le conosca si vanta della propria arte…
Di certo nessuno dei miei ricordi poteva infondere un sentimento di nostalgia in quelle misteriose note. La loro bellezza e la loro particolarità le rendevano differenti da qualsiasi altra musica avessi mai sentito trarre da un’arpa.
Poiché in nessun modo egli può onestamente divenire artefice del proprio amore…
Ora riuscivo a vedere colui che cantava: una figura piccola, ingobbita, in una lunga veste bianca che gli ricadeva sulle spalle e proiettava ombre sull’arpa. L’uomo era a testa china e la scosse con forza appena staccò la vecchia mano dalle corde ancora vibranti. Era difficile immaginare che la sua voce avesse pronunciato quelle parole ammaliatrici o che le sue mani grinzose avessero accarezzato le corde in modo così sapiente. Eppure le note dell’arpa erano risuonate, le labbra dell’uomo si erano mosse.
Il vecchio mi vide. I suoi occhi erano infossati, quasi invisibili nel cranio, e messi in ombra da folte sopracciglia. Mentre mi avvicinavo, seguito da John, schiuse le labbra screpolate in una parodia di sorriso. — Cercate me?
— No, non in particolare — risposi.
Il vecchio annuì e restò a testa bassa, — Sono il cantore di sogni — disse con voce lenta e ovattata.
— Mi chiamo Matthew. Lui è mio fratello John.
— Perché siete venuti? — domandò il vecchio. La sua voce era aspra, per nulla somigliante a quella che avevo udito salendo la collina. Eppure era la stessa persona.
— Veniamo da molto lontano — dissi — in cerca di un essere di cui non conosciamo le fattezze.
— Allora come lo potrete riconoscere, quando lo troverete?
— Non lo so — confessai.
— Quando lo troveremo, lo sapremo — disse John. Parlò con la certezza che gli derivava dalla fede, ma io non ero altrettanto fiducioso.
— La gente venne per vedermi — disse il vecchio. — Per vedere uno strano uomo che ha vissuto per molte generazioni, che ha visto troppo e che canta con voci che non gli appartengono. Venne per osservare o per ascoltare.
Rimasi in silenzio.
— Ci sono sempre delle storie — disse il cantore di sogni. — Credete alle storie?
— Quali storie? — domandai.
— Sono un uomo anziano — continuò lui, senza badare alla mia domanda — e sogno. Me ne sto seduto con la mia arpa e ho delle visioni. Da dove vengano i sogni, non so. Come potrei saperlo? Li vedo come se fossero miei, ma essi non mi appartengono. Vengono dal passato e da lontano. Non sono miei… mi echeggiano solo nella mente. Non so dire perché.
“Quante cose ho visto! Molte non le ho potute capire, e molte non le ho volute capire. Ho vissuto per molti secoli e ho sognato, ma non posso capire.
“Un tempo quel sole…” Alzò la mano e indicò il sole cremisi. “Ricordo quando il sole…”
Lasciò cadere la mano senza terminare la frase. Ero un po’ spaventato. Anch’io ricordavo il tempo in cui il sole era di un giallo accecante, non rosso smorto come ora.
— Cosa sogni? — chiese piano John.
— Vi canterò un sogno — disse lui. — Quale sogno? Ditemi, qual è la cosa al mondo che temete di più?
— La solitudine — risposi; la risposta mi uscì così velocemente dalla bocca che nemmeno io ero sicuro che fosse la verità.
— Molto bene — disse sommessamente. — Vi canterò un sogno di solitudine. Di chi sia il sogno, non ve lo so dire.
Le dita nodose pizzicarono le corde dell’arpa. Il vecchio aprì la bocca e cantò. Non era la voce con cui aveva cantato prima, né la sua viva voce. Era una voce nuova, lamentosa, con forti accenti disperati.
Non c’erano parole nella canzone, ma la musica catturò la mia mente e fece sorgere in me delle immagini. Non saprei dire se sia stata l’arpa o la voce a incantarmi così. Forse le due cose insieme.
Nuvole temporalesche si ammassavano minacciose sopra un mare plumbeo solcato da un’unica nave. Aveva un solo albero e scarsa velatura, eppure scivolava veloce nel vento scricchiolando per la tensione. Tre procellarie le passarono accanto svolazzando all’impazzata sopra le onde lente e pesanti. In lontananza c’era una scogliera frastagliata e dentellata, alta e minacciosa. La nave correva verso gli scogli, e io sentii l’ambiguità della situazione: quella terra poteva significare salvezza o distruzione.
L’unico uomo a bordo non sapeva se sperare o disperarsi perché la nave si precipitava all’impazzata contro la costa sconosciuta. Le nubi, alte nel cielo, ribollivano in fermento, riversando sulle ali del vento una pioggia torrenziale.
Mentre la nave acquistava sempre più velocità, l’uomo sussurrò un nome una, due volte. Non pregava, la sua voce non era rotta dalla paura. Pronunciò solo un nome che evocava un antico amore ormai perduto e sogni infranti dal tempo. Balenarono i lampi e i tuoni inghiottirono il nome senza che riuscissi a distinguerlo chiaramente. La parete della scogliera incombeva sempre più vicina e terribile, il mare si aprì in spuma davanti alla nave mostrando denti neri e aguzzi che si protendevano dall’acqua per distruggere il vascello. Il veliero si scagliò contro il nero sorriso degli scogli e si disintegrò al primo impatto.
L’uomo scomparve e il nome che aveva pronunciato fu consegnato per sempre alle profondità del mare.
Il suono svanì, le corde vibrarono e tacquero. Il cantore di sogni, curvo sull’arpa, sembrava pietrificato.
— Cosa successe?
Il cantore di sogni non sollevò lo sguardo. — Morì. Penso che fosse un brav’uomo. Mi chiedo quale nome abbia urlato alla tempesta. Questo è tutto ciò che so. Vedo il cielo, il mare, la scogliera frastagliata. Ma non vedo cosa c’è dietro. Non posso leggere i pensieri di quell’uomo. Non conosco i suoi sentimenti. Non conosco nemmeno il nome che ha sussurrato, perso nel fragore del mare.
— Non eri tu quell’uomo? — domandai.
— Sì — rispose — ero quell’uomo. Sono stato un milione di uomini e donne. Vivo migliaia di momenti che non mi appartengono. Tutti loro sono me, ma io non sono uno di loro. Sono il cantore di sogni, e questo è tutto.
Le sue dita sfiorarono le corde, quasi senza volerlo, e di nuovo la voce, un’altra voce, mi rapì coinvolgendomi in un altro sogno.
Una ragazza alata era distesa sul ramo ricurvo di un grande salice piangente che cresceva accanto a uno stagno. Le ali azzurrine le pendevano mollemente dalla schiena mentre il suo minuscolo piede smuoveva la superficie dell’acqua. Il suo sguardo scrutava il cielo cristallino da sotto la chioma ondeggiante dell’albero.
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