Andrea Calò
UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO
Romanzo
Prima Edizione – Gennaio 2013
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
© Copyright 2013 – Andrea Calò
ISBN: 9788873042877
@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it
Edizioni TEKTIME
A tutti coloro i quali sanno di avere almeno un angelo in Paradiso.
Scrivere un libro è come partire per un viaggio. Si fanno le valige, si parte da un punto preciso e si procede cercando di raggiungere il punto d’arrivo, la meta desiderata. Ma come a volte accade durante un viaggio, le insidie, gli errori, le paure e gli imprevisti sono lì pronti a sorprenderci, a frenarci, a volte al punto di farci desistere dal proseguire. Con l’aiuto delle persone che ci stanno accanto o di quelle incontrate lungo la strada, si riesce tuttavia a venirne fuori, a volte con facilità, altre con estrema pena; ma non ci si siede mai sull’errore, per non perdere l’investimento fatto. Durante questo viaggio ho avuto diverse persone al mio fianco, tutte mi hanno spronato e incoraggiato a continuare il cammino, a realizzare quel sogno che da tanti anni tenevo chiuso in un cassetto, permettendomi di aprirmi completamente ad esso, al mio progetto.
Grazie a mia moglie Sonia che più di tutti ha creduto in me, da sempre, per la paziente lettura delle bozze avvenuta sin dalle prime fasi di preparazione di questo testo e per le fertili discussioni che hanno portato alla creazione della trama di questo romanzo.
Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato la vita, mi hanno cresciuto e istruito, permettendo che tutto questo si trasformasse in realtà.
E infine, ma non da ultimo, grazie a te Elena, per aver istruito il mio cuore e guidato la mia mente durante tutto questo percorso: qui dentro c’è davvero una grossa parte di te.
Penso che una storia come la mia non sia stata mai raccontata. Forse per paura del giudizio degli altri, o forse per quel sottile velo di pazzia che la accompagna.
Mi chiamo Katherine o più brevemente Kate, mi dicono che sono nata trentasei anni fa a New York, dove tuttora vivo, da padre italiano e madre inglese. Il mio non è quindi sangue americano. La mia data di nascita è impressa sul passaporto, accanto alla mia immagine, e incisa con inchiostro di china sulle fotografie ingiallite dal tempo che mia madre mi fece quando ero bambina. Io sono però convinta di aver vissuto di più, molto di più. Forse il doppio dei miei anni, se considero anche quelli che io ritengo vissuti dalla donna che fui nella mia vita passata. Conservo chiari i ricordi, lucidamente ordinati nella mia mente come se si trattasse della mia vita attuale, li rivisito quando ne ho voglia o ne sento il bisogno. Penserete che io sia una povera pazza in preda ad una crisi d’identità e forse avete ragione. Lo pensava anche mia madre, quando da piccola le raccontavo le storie dei miei amici grandi con i quali parlavo e condividevo esperienze e sensazioni che possono essere parte solo della vita di una donna, non di una bambina. Parlavo di persone che lei sosteneva esistessero solo nella mia mente di bambina . Nei primi anni della mia vita lei assecondava il mio stato d’essere, la mia doppia identità, associandola alla mia immaturità e al mio innato attaccamento al gioco. Credeva, infatti, che io stessi giocando, che cercassi di interpretare i ruoli di un personaggio creato dalla mia fantasia e che prendeva vita e forma attraverso le mie parole e i miei comportamenti. Ne andava anche sì fiera di tutto questo perché ai suoi occhi di madre orgogliosa apparivo in tutta la mia unicità. Era certa, però, che con il tempo questo gioco sarebbe finito da solo proprio così com’era iniziato, permettendomi di cedere lentamente il passo al mio divenire donna. Ma non fu così perché quello per me non era affatto un gioco. Io conoscevo molto bene le persone con cui parlavo e che descrivevo a mia madre nei minimi dettagli, le sognavo frequentemente anche durante le notti. Un gioco non lascia emozioni tanto forti o ferite laceranti nell’animo, come invece accadeva nel mio caso. Mia madre mi portò da illustri medici della mente, profumatamente pagati per confermarle alla fine dei pensieri che lei stessa già aveva. Si sentiva confortata dalle loro conferme ma soprattutto dalle rassicurazioni su una mia prossima guarigione. ‘E’ solo una questione di tempo’, le diceva il luminare di turno. E lei ci credeva puntualmente, senza mai privarsi di quelle lacrime di sfogo che venivano a riempirle gli occhi, ogni volta. Per tutti io vivevo una doppia identità. ‘Solo in questa vita’, pensavo io di volta in volta. Mi fu sempre proibito di fare qualunque cosa potesse permettermi di ripercorrere il mio passato, quello più lontano, quello ormai estinto da tanto tempo. Forse più per paura di mia madre di scoprire un bel giorno che la sua pazza bambina aveva sempre avuto ragione e non per un reale atto di protezione nei miei confronti. Mentre la osservavo immobile sul suo letto di morte, serena in volto per il riposo eterno che l’aveva appena accolta, compresi che anch’io dovevo essere già passata attraverso quella fase, anche se mi sentivo totalmente incapace di raffigurarla, di descriverla e quindi di raccontarla agli altri, oltre che a me stesa. Non potevo però più farle del male con l’esternazione dei miei pensieri, con il mio desiderio di scoprire l’altra me stessa ormai estinta da molto tempo.
Sono intrappolata da un tempo eterno, prigioniera di una bolla trasparente. Migliaia di altre sfere di celluloide levitano nell’aria, avvolgendo altrettanti individui che, come me, si muovono goffamente all’interno. Tutt’intorno, come un branco confuso di animali, una massa di persone si presenta davanti alle grandi bolle: cercano un appiglio per aggrapparsi e, con occhi supplichevoli, muovono le labbra e dicono parole che non riesco a comprendere. Vaghi ma lucidi sono i ricordi, come i sogni dimenticati appena sveglia, ma nitidi fino a un attimo prima. Sfiorano la mia mente turbandola: anch’io, per parecchi anni, devo essere stata là fuori, ma non riesco a congiungere il tempo con le immagini e tutto rimane al fluttuante livello d’impressione.
La mia memoria è un vuoto che ogni tanto si popola d’immagini in bianco e nero. E non c’è spazio neanche per un ricordo in un vuoto quando è ricercato dalla mia volontà. Cerco di avvertire la gente delle sensazioni che provo per farli allontanare, ma non sembrano sentirmi o vedermi. Sono completamente isolata. Quelli di fuori, pur senza vedermi, indicano verso di me in strani modi. Alcuni accarezzano le sfere, degli altri vi appoggiano il capo contro, cercando di captare ogni minimo movimento, mentre altri ancora sorridono senza un motivo apparente. Dentro di me si fa largo il sospetto di assistere a uno spettacolo messo in scena da creature immaginarie: trasposizioni della mente nella mia passata, presente e futura coscienza, guizzi da un passato dimenticato ma non sconosciuto e rivolti verso un futuro incerto. Non so cosa significhino le parole che penso, forse sono solo conoscenze ataviche, rimaste per secoli a livello inconscio, ma sembrano le più adatte per esprimere ciò che sento.
Anche se non sono sicura che fuori sia meglio, la voglia di uscire cresce dentro di me, facendosi spazio con prepotenza: sono stanca del tiepido calore e della triste sicurezza della bolla. Comincio a cercare una crepa all’interno della cella, ma ancor fatico a trovarla. Il ritorno a visioni antiche, quasi ataviche, ma proprio per questo sicure, mi ha impedito di vedere il mio ultimo sussulto. L’ultimo anelito di vita arso dal fuoco della mia scomparsa si è innalzato sopra di tutto e tutti, formando una nuova bolla in cui si è ricomposto il corpo. Nessuno fu in grado, però, di vederla. Ecco, hanno perso tutti una buona occasione per capire, io inclusa. Probabilmente non capiremo mai: la novità porta l’ignoto e la paura, mentre il ricordo conforta con certezza e sicurezza.
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