«Non ha nulla di che preoccuparsi signor Beal. Signora, ecco la chiave della sua camera. Le chiamo un facchino che le porterà la valigia in camera tra pochi minuti, la lasci pure qui a me». Ringraziai Fred. Non avevo dovuto fare nemmeno il check-in, la camera era stata registrata con il nome di John.
«Grazie ancora John per tutto il suo aiuto e la sua generosa disponibilità, lei è davvero una brava persona, molto più di quanto non lo sia io. E mi scusi ancora per la mia indecenza, in aeroporto come in macchina, poco fa».
«Le ripeto Katherine, le sue scuse sono state già accettate. Non parliamone più, non è importante. Cerchi piuttosto di trascorrere una buona nottata, ci vediamo qui nella hall domani mattina alle otto. Faremo colazione qui nel ristorante dell’hotel, è ottimo. Poi partiremo per il Wallowa». Fece una pausa, poi riprese. «A proposito, dimenticavo che lei non ha ancora cenato!». Negai con una mossa del capo ma lo rassicurai dicendogli che avrei preso una tazza di caffè in camera, non ero solita mangiare molto la sera, soprattutto prima di andare a letto. Ed ero molto stanca, non avrei tardato ad addormentarmi. Mi prese la mano e me la baciò. Il contatto della pelle della mia mano con le sue labbra morbide e calde mi fece tremare. Riuscii a fatica a trattenere dentro di me la mia emozione e lo salutai.
«A domani Katherine».
«A domani John». Mi seguì con lo sguardo, rimanendo immobile per tutto il tempo, fino a quando non si aprì la porta dell’ascensore. Teneva le mani nelle tasche del cappotto, come se stesse nascondendo qualche cosa al loro interno. Entrai nell’ascensore e premetti il tasto per salire al terzo piano. Ebbi giusto il tempo per lanciare un ultimo cenno di saluto con la mano a John, che ricambiò, poi restai immobile a osservare la sua immagine che scompariva dietro le fredde porte d’acciaio della cabina dell’ascensore. Un lungo corridoio, stretto e buio, mi conduceva alla camera 315. Mentre passavo davanti alle porte delle altre stanze, sentivo i rumori delle televisioni accese, dell’acqua delle docce e le voci delle persone provenire dall’interno. L’hotel era quasi pieno. Entrai nella mia stanza, era molto piccola, con un bagno angusto e poco curato. Guardai fuori dalla finestra. Si dispiegava un bel panorama a ridosso della città e, in lontananza, vedevo le luci accese e intense che illuminavano le piste dell’aeroporto. Il bagliore dei riflessi di luce sulle lastre ghiacciate e sui cumuli di neve, donava al paesaggio un che di fiabesco. Presi il bollitore e riscaldai dell’acqua per prepararmi un buon caffè americano. Avevo bisogno di qualcosa di caldo per combattere il gelo che mi aveva attraversato anche le ossa in quella fredda serata. In quella stessa serata, però, avevo incontrato un uomo che era riuscito a scaldarmi il cuore. Un talk show trasmesso in televisione riempiva la stanza di parole, lo guardai con poco interesse mentre sorseggiavo la mia tazza di caffè. La mia mente vagava su quello che avrei visto e vissuto nel Wallowa, m’interrogavo sulla reale esistenza della casa che cercavo. Di certo, se non l’avessi trovata, sarei rimasta molto delusa da me stessa e me ne sarei ritornata a casa a mani vuote, forzandomi a cancellare per sempre quelle immagini che da sempre avevano popolato la mia mente e i miei pensieri. Ricercai nella mia memoria visiva i tasselli per ricostruire l’immagine di John e apprezzai tutto quello che aveva fatto per me. Solo adesso che se n’era andato via, lasciandomi da sola in quella stanza, riuscivo a esprimere tutta la mia gratitudine. Aveva preso una perfetta sconosciuta in aeroporto e le aveva offerto il suo aiuto, i suoi servizi, senza pretendere nulla in cambio. Almeno fino a quel momento. Mi chiedevo ancora se quell’uomo fosse reale oppure un frutto della mia immaginazione. Eppure l’emozione che avevo provato mentre mi baciava la mano era reale, fisica. Decisi di non pensarci più. Se ero giunta nella stanza di quell’hotel di Portland, qualcuno o qualcosa doveva avermici portata. Pazza si, potevo anche accettare di esserlo, ma non potevo esasperare le mie fantasie al punto da generare ipotesi e pensieri assurdi. Mi spogliai ed entrai in bagno, buttandomi sotto la doccia che versava acqua molto calda, quasi fumante. Incrociai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me, ampiamente offuscato ai bordi dal vapore caldo prodotto dall’acqua della doccia. Si era creata una cornice intorno al mio corpo e potevo ammirare le mie fattezze e i seni turgidi come se stessi ammirando un quadro. Vidi che ero oggettivamente una bella donna. “Si, sei una bella donna Kate”, mi suggerì il mio orgoglio di donna, facendomi disegnare un bel sorriso fiero sulle mie labbra chiuse. La doccia tolse via la stanchezza della giornata dal mio corpo, rilassando i miei muscoli mentre l’acqua calda scorreva lungo i miei fianchi e solcava la mia schiena. Mi sfiorai con la mano mentre la mente andava a John, l’uomo di quella sera, e fui subito pervasa da un brivido caldo che mi fece sussultare dal piacere. Il mio corpo rispondeva bene agli stimoli del sesso, anche se ancora non ero riuscita a provare il vero piacere con un uomo. Io sola conoscevo bene me stessa al punto da prendermi cura del mio corpo proprio come meritava. Subito dopo mi sentii rilassata e distesa, soddisfatta nel corpo e nella mente per ciò che avevo appena fatto. Indossai il mio pigiama e m’infilai sotto le coperte. In televisione il talk show proseguiva con i suoi dialoghi, tra le forti grida dei litigiosi partecipanti e le risate del pubblico, mentre il presentatore tentava invano di riprendere il controllo di una situazione che sembrava ormai essergli sfuggita completamente di mano. Senza rendermene conto, in pochissimo tempo caddi in un sonno profondo.
Bastardo! Sei un lurido bastardo, si! Io ti ho donato il mio amore e te lo sei preso insieme al mio corpo. Tu ti sei preso tutto di me, anche la mia anima. E ora non hai la forza di accettarmi per quello che sono e che ti ho dato, ti nascondi dietro le scuse più ignobili e lo chiami “frutto del peccato”! Ti ho detto di scegliere, ma devi farlo adesso, non sono più disposta ad accettare più nulla e nessuno! Devi scegliere tra noi due, e che sia la tua scelta per sempre. Mi stai costringendo a odiarti, sei un vigliacco. Non meriti il mio amore e se non prendi una decisione, non lo avrai più! Vattene via, via! Libera i miei occhi e la mia vita dalla tua scomoda presenza, vattene via per sempre. Non ti voglio più vedere, mai più! Ho creduto in te e tu mi hai annientato, mi sono umiliata davanti alla mia famiglia, alla mia gente, per te. E tu in cambio hai calpestato quel poco di onore che ancora mi era rimasto e hai spazzato via le briciole di orgoglio di donna che ancora difendevo a denti stretti, dopo aver scelto di stare con te. Vai da lei allora! Vattene… Vai via subito! Sei morto per me, ora e per sempre! Lurido bastardo!
Nella notte spalancai gli occhi, ero madida di sudore. Sentivo il caldo avvolgermi completamente, in tutto il corpo. Guardai la sveglia, erano passate le tre di notte solo da pochi minuti. La televisione era rimasta accesa, stava trasmettendo un concerto rock degli anni ottanta. Nella stanza dominavano i bagliori di luce intermittente delle lampade psichedeliche, inquadrate dalle telecamere e rivolte al palco sul quale quei cantanti impazziti si stavano esibendo. La musica era interrotta ogni tanto da qualche sordo clacson delle auto che ancora passavano sulla strada, sotto l’hotel. Mi alzai e mi affacciai alla finestra per guardare fuori, oltre le tende. Non mi aspettavo un simile caos a quell’ora della notte, lo trovai molto strano, atipico per un giorno di mezza settimana in una via piuttosto periferica rispetto al centro città.
«Che assurda frenesia!», sussurrai a me stessa mentre chiudevo a fatica le tende oscuranti della finestra, che opponevano una certa resistenza allo scorrimento dei ganci sul binario. Ritornai nel mio letto per cercare di recuperare il sonno interrotto. Mi giravo continuamente su me stessa, come si gira la salsiccia di un hot dog sulla piastra incandescente per evitare che si bruci, da una parte all’altra, ma proprio non riuscivo a riaddormentarmi. Ero agitata, ma che cosa fosse a tenermi in quello stato proprio non riuscivo a capirlo.
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