Andrea Calo' - Una Bolla Fuori Dal Tempo

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Una Bolla Fuori Dal Tempo: краткое содержание, описание и аннотация

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”Quando mi vedrai morto d’amore per te, mia donna, e le mie labbra saranno schiuse, e svuotato dell’anima sarà il corpo… allora, vinta dal dolore e dal rimorso, verrai al mio capezzale e con voce tenera e sommessa dirai: Io sono colei che ti ha ucciso e pentita sono ritornata…”.
Due corpi, una sola anima. Un ritorno alla vita un secolo e mezzo dopo la prima volta che annienta i confini imposti dal tempo. Una nuova vita o solo un riscatto. Ma certamente un nuovo amore che sboccia nella rivisitazione aggiornata di un passato ormai estinto.
”UNA BOLLA FUORI DAL TEMPO” è un Romanzo ricco di emozioni, di immagini e di colpi di scena che tiene il lettore incollato fino all'ultima pagina.
E se fosse vero che tutti noi viviamo più di una vita? E se crescessimo con la certezza di ricordarne una precedente?
Katherine, da tutti chiamata Kate, è una giovane donna italoamericana che vive a New York. Molti sono convinti che abbia problemi mentali, la sua famiglia d’origine compresa. Ma non è così: la sua particola¬rità è che sembra ricordare con assoluta nitidezza i dettagli di una sua vita precedente, vita vissuta in un luogo lontano dalla sua città natale. Ormai trentacinquenne, decide di tornare a Joseph, nella contea di Wallowa, Oregon, dove è cer¬ta di aver vissuto. Cerca il suo passato, ciò che fu la sua anima rinchiusa nel corpo di una donna d’altri tempi. Costretta a fermarsi a Portland per una tempesta, incontra John, con cui percepisce una strana affinità. Lui si offrirà di aiutarla a cercare le tracce di questo passato che non smette di ossessionarla. Un quadro, un bacio, una casa ed un diario scritto da lei stessa nella seconda metà dell’ottocento, tutto converge verso una rivelazione mozzafiato serbata per un finale capace di rendere questo romanzo indimenticabile.

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«Che cosa intende dire con questo? Ieri sera sono rimasta a digiuno, ho bevuto solo del caffè e poi sono andata a dormire. E’ logico, umano e fisico avere fame! E cosa c’entrano gli italiani in tutto questo?». Voleva la guerra? Ero pronta a combattere ad armi pari! La mia forchetta con un pezzo di salsiccia infilzato rimase per un bel po’ sospesa a mezz’aria, sorretta dalla mia mano che non sapeva più decidere se riportarla nel piatto o verso la bocca.

«Ieri sera, quando le chiesi se aveva già cenato, mi ha risposto che non era solita mangiare tanto prima di andare a letto. Ho preso atto delle sue parole e non mi sono permesso di insistere oltremodo per offrirle uno spuntino. Le chiedo scusa, forse avrei dovuto seguire di più il mio istinto. Riguardo agli italiani, ha presente quelle comitive che partono dalle grandi città per una vacanza fuori dalle loro mura domestiche, acquistando i pacchetti completi di vitto e di alloggio? Non lasciano cadere nemmeno una briciola di pane dalla loro tavola. Con la scusa di aver già pagato tutto, si abbuffano come porci e ingrassano al punto da non riconoscersi più al loro ritorno a casa».

Non potevo trattenere le risate mentre, nel frattempo, avevo ripreso a mangiare con gusto. Quell’uomo mi divertiva, mi sentivo bene con lui. Cominciai a pensare che forse avrei dovuto condividere con lui la mia situazione e l’obiettivo primario della mia visita. Tuttavia non avrei di certo preteso aiuto da parte sua. Così come, di certo, non l’avrei rifiutato qualora me l’avesse offerto di sua spontanea volontà.

«E lei cosa ne sa di come si comportano gli italiani? Non sono poi tutti uguali. Secondo me, caro John, lei ha in mente lo stereotipo dell’italiano zoticone e rumoroso, gran mangiatore di pizza e spaghetti, che suona il mandolino e che è pronto a fregare il prossimo alla prima svista. Dico bene?», lo stuzzicai per poi affondare il colpo di grazia, «Gli italiani poi sono grandi amatori, lo sa questo vero?». Scoppiai a ridere, mentre lui posava la sua tazza ormai vuota, mostrava uno sguardo severo.

«Che ne dice se procediamo al check-out e ci avviamo? La strada è lunga. Vedo che non ha con sé la sua valigia», rispose, piuttosto imbarazzato dalla mia ultima frecciata che, indubbiamente, doveva aver colto nel segno.

«Si John, gli italiani fanno l’amore davvero bene! Se lo ricordi questo, sempre. Vado a prendere la mia valigia, ci vediamo qui tra pochi minuti, se non incontrerò un italiano in ascensore», replicai strizzando l’occhio come farebbe una ragazzina impertinente contenta di fare un dispetto a un contendente.

«Katherine!», mi chiamò, «Dovrebbe indossare qualche cosa di più caldo, confortevole e appropriato prima di uscire. Nel Wallowa fa molto freddo, soprattutto in questi giorni, non vorrei che si ammalasse». Aveva vinto lui ancora una volta. Con la sua compostezza, con la sua serietà e gentilezza, era riuscito letteralmente a trainarmi lungo la sua strada. Ora ero io a seguirlo e lo facevo con piacere e con estrema gratitudine. Aveva pensato a me, perché io non mi ammalassi, a disprezzo delle battutacce da ragazza sboccata che avevo appena pronunciato e che, in un certo senso, dovevano averlo toccato profondamente. Dovevo riparare al mio errore. “Ma io ho fatto tutto questo per lei, John!”, fui in procinto di dire, ma mi trattenni giusto in tempo per evitarmi un’altra figuraccia, ne avevo già commesse abbastanza in una sola ora della giornata. Inoltre sapevo benissimo che l’avevo fatto principalmente per me, per nascondere un mio difetto, non c’era nessuna traccia di altruismo nel mio gesto. Con un cenno del capo confermai di aver accolto il suo suggerimento ed entrai in ascensore. John si era avvicinato e prima che le porte si richiudessero mi sorrise, mentre mi guardava con espressione rilassata e giocosa.

«Non vedo italiani nell’ascensore Katherine. Bene, allora può salire». Scoppiai a ridere e non riuscii a fermarmi se non prima di essere rientrata nella mia stanza.

Indossai il mio maglione di lana a collo alto, presi il bagaglio e tornai nella hall. John mi attendeva vicino alla porta dell’ascensore. Mi fermai lasciando la valigia per infilarmi il cappotto che portavo appeso al mio braccio, come sempre. John, senza dire nulla, prese la mia valigia e cominciò ad avviarsi, anticipandomi verso l’uscita dell’hotel.

«Aspetti, devo saldare in conto della camera».

«Già fatto, non si preoccupi. Possiamo andare, mi segua».

«Ma ne è sicuro John?».

«Mi chiede se son sicuro di aver pagato? Certo, la mia carta di credito è ancora calda», rispose sorridendomi.

«No. Intendo dire se è sicuro di quello che sta facendo. Sono una perfetta sconosciuta per lei, non pensa?».

«Non è vero! Ci siamo conosciuti ieri sera in aeroporto, abbiamo viaggiato insieme in macchina, abbiamo fatto colazione insieme questa mattina e poco ci mancava che non mi mostrasse completamente il suo seno con quella scollatura di poco fa. Ritiene ancora che lei ed io siamo dei perfetti sconosciuti?». Era disarmante nella sua semplicità espressiva, nella sua capacità di farmi sentire importante! Mi sentii talmente circuita che non riuscii a rispondere, se non in macchina, dopo essermi sistemata all’interno dell’abitacolo ancora freddo.

«Si, siamo sconosciuti. Non vede che ci rivolgiamo l’uno all’altra con un freddo “lei”?», gli dissi, sperando di spalancare le porte a una maggiore confidenza tra di noi. La mia speranza fu subito ripagata.

«Ben appunto, lo pensavo anch’io poco fa, mentre attendevo all’ascensore. Che ne direbbe di abbattere il muro e darci del “tu”?».

«Va bene, con piacere», risposi mentre provavo davvero piacere nel dirlo, nel liberarmi da una costrizione che tendeva a frenarmi anche troppo.

John mi guardava sempre dritto negli occhi quando mi parlava seriamente, come avevo potuto pensare di distrarlo con altri mezzi? Avevo l’impressione sempre più forte di conoscere davvero quell’uomo da molto tempo.

«L’auto è ancora fredda, ma tra poco si starà meglio. Ti dispiace se accendo il condizionatore d’aria per farla riscaldare prima?».

«Assolutamente no, vedi tu ciò che è meglio fare».

«Bene, noto che il gonfiore agli occhi sta effettivamente scomparendo. Ora sono tornati belli, come ieri sera».

Gli sorrisi in silenzio e rimasi a osservare i morbidi lineamenti del suo profilo mentre, attento, conduceva l’auto sulla strada principale. Restammo in silenzio per un po’, mentre la radio trasmetteva musica classica in continuazione. Attraversammo il centro della città, Portland era già viva a quell’ora del mattino, le sue strade e i marciapiedi erano riempiti di gente che camminava a passo veloce, diretta chissà dove, chissà perché. Attraversammo il ponte sul fiume Willamette, era così bello con la neve, assumeva un fascino particolare. Osservavo fuori dal finestrino e catturavo tutte le immagini di quel paesaggio, cercando di capire se nella mia vita passata fossi già stata in quella zona. No, per me erano completamente nuove e per questo, forse, le apprezzavo ancora di più.

«Allora, ti piace Portland?».

«E’ una bella città e con la neve sembra davvero magica. E’ molto più tranquilla di New York ma sembra non farsi mancare proprio nulla. Penso non abbia assolutamente nulla da invidiargli».

«E’ una città completa e misteriosa. E’ una bella città. Ma quando ci vivi da un po’ di tempo, tende a soffocarti, come accade con la maggior parte delle grandi metropoli. Il Wallowa invece è immerso nella natura. Vedrai che differenza, Kate! Ha il suo bel lago, chiuso tra le montagne, i colori dei fiori in primavera, le piante e il verde tutt’intorno. Splendido posto Kate!», mi rispose, «E’ un peccato che tu la possa vedere solo con la neve».

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