Sistemai le cose più importanti in una valigia sufficientemente grande ma senza porvi troppa attenzione, prevedevo una durata piuttosto lunga per il mio viaggio. Quantomeno questo era quanto mi ero prefissata prima di partire. La mia valigia conteneva vestiti pesanti e caldi, essendo la stagione ormai prossima a un inverno, si diceva, piuttosto rigido. Le calde giornate estive erano ormai un lontano ricordo, tuttavia il freddo non mi è mai dispiaciuto. Mi aiutava a pensare, mentre me ne stavo beatamente seduta sul divano del mio caldo salotto, con una tazza di tè al gelsomino fumante tenuta ben stretta tra le mani. Rinnovato il passaporto, prenotai il volo American Airlines in partenza dall’aeroporto J.F.K. alle cinque del pomeriggio del giorno seguente e diretto a Portland. In settimana si poteva trovare sempre un posto con una certa facilità, anche all’ultimo minuto e a costi non eccessivi. Tuttavia l’aspetto economico non m’interessava per nulla in quel momento, le mie priorità erano ben altre. L’arrivo a Portland era previsto intorno alle otto di sera. Non trovai voli diretti per Joseph, quindi avrei percorso il tratto da Portland al Wallowa con i mezzi pubblici. Non sarebbe stata una passeggiata, la distanza di 343 miglia da coprire avrebbe richiesto ben sette ore di viaggio. Avrei chiesto informazioni direttamente in aeroporto, al mio arrivo. Speravo di trovare un mezzo in partenza la sera stessa, per coprire la tratta durante la notte. Lasciai quindi la città senza annunciare a nessuno la mia partenza. Registrai solo un messaggio con la mia voce sul nastro della segreteria telefonica. Volevo evitare di sentirmi data per dispersa o vedere la mia faccia sbattuta in primo piano in televisione nella rubrica dedicata alla gente scomparsa o sulle pagine dei giornali di cronaca. Sarebbe stato d’intralcio per me, mi sarei sentita pedinata ovunque mi fossi diretta, negli Stati Uniti o nel mondo intero. Tuttavia non volevo nemmeno dare troppi dettagli a riguardo, quindi mi limitai a notificare la mia assenza temporanea con la promessa di un contatto futuro. Il messaggio diceva:
Scusatemi ma non sono in casa. Sono partita per un viaggio, ci sentiremo al mio ritorno.
Seguito dal tono che annunciava l’inizio delle registrazioni.
Erano ormai passati tanti anni dal giorno della mia ultima attesa in coda al check-in nell’aeroporto J.F.K. L’ultima volta che avvenne, fu per un viaggio organizzato da mia madre, per farmi riesaminare la testa da uno psicologo che operava in una località che non ricordo, al confine con il Messico, da lei considerato molto bravo e sicuramente in grado di porre fine al mio “problema”. Ovviamente non fu così perché io non ho mai vissuto la mia situazione come un problema. Il tempo scorreva lento. I miei occhi erano distratti dalle lancette dell’orologio che parevano incollate, immobilizzate sempre nella stessa posizione, piuttosto che dalla gente che mi precedeva o mi seguiva in coda. Osservavo tuttavia le persone camminare velocemente, quasi correndo, mentre si trascinavano dietro le grosse e pesanti valige a rotelle. Questa gente era avvezza a tali ritmi di vita, s’intuiva facilmente, tant’era ormai divenuta un’abitudine per loro. Le persone davano all’aeroporto la parvenza di un centro cittadino: entravano a mani vuote nei negozi e ne uscivano caricate con sacchetti colorati, mangiavano e bevevano rumorosamente nei bar e ristoranti, leggevano giornali, libri o riviste sulle panchine d’acciaio, sotto le luci artificiali delle lampade al neon, di un bianco accecante, qua e là disseminate nel terminal. Io li seguivo con il mio sguardo assente, adeguandomi a loro ma restando immersa nei miei pensieri. Mi sentivo quasi inconsapevole delle immagini che popolavano la mia mente, totalmente incapace di distinguere se descrivevano parte del mio tempo presente o del mio passato. Se non fosse stato per l’aiuto di qualche elemento tipico di un’epoca ormai remota, che fissava in me qualche punto di riferimento, non ne sarei facilmente venuta a capo. Forse proprio in questo era racchiusa la mia pazzia, quella che mia madre teneva tanto a dimostrare: la mia incapacità di distinguere immagini reali da quelle che erano solo frutto di una mia fantasia. Nutrivo la palpabile paura di scoprire di essere realmente pazza e di dover dare definitivamente ragione a mia madre e accettare le sue parole e i suoi pensieri. Tuttavia, ora che era morta, non avrei più nemmeno avuto la possibilità di parlargliene e di chiarire con lei. Temevo di aver realmente bisogno di un medico, per impedirmi di commettere sciocchezze in un futuro, quando sarei stata abbandonata definitivamente da quel sottile filo di ragione che ancora mi restava, facendomi isolare in una realtà abitata da tanti altri pazzi. Pazzi come me. Cominciavo a prendere coscienza della mia diversità, proprio ora che mi sentivo sola al mondo, abbandonata da tutto e da tutti. Forse se fossi tornata a casa, avrei evitato tutto questo. Avrei potuto riporre le mie paure in fondo alla cesta delle cose da dimenticare. Avrei continuato a parlare con i miei amici immaginari e, forse, avrei raccolto i miei pensieri in un libro nel tentativo di svuotarmi per sempre, allontanarli da me portandoli fuori dal mio corpo e dalla mia mente, per potermene liberare definitivamente.
L’altoparlante al gate annunciava l’inizio dell’imbarco sul mio volo, mancava giusto mezz’ora alle cinque: priorità ai disabili e alle gestanti. I pazzi sono considerati disabili, pensai, perché non approfittarne quindi? Notai che le persone accanto a me indugiavano nell’alzarsi dalle loro poltrone, erano ben coscienti della loro normalità a tutti gli effetti. Continuavano indisturbate a giocare con i loro telefoni. In quel momento notai che avevo scordato a casa il mio. Poco importava, pensai. Se nella mia vita passata ero riuscita a vivere senza telefono, potevo farlo anche ora, in questa vita, durante questo viaggio. Inoltre non sarei stata rintracciata da parenti e amici che avrebbero distolto la mia attenzione dalla ricerca chiedendomi informazioni, spiegazioni o cose simili che non avrei avuto tempo ne voglia di dare loro. Mi sistemai al posto assegnatomi sull’aereo, e dopo aver controllato le stampe degli indirizzi, delle mappe stradali e degli uffici del turismo di Joseph che avevo collezionato nei giorni precedenti la mia partenza, riposi la mia ventiquattrore nello scomparto aperto, sopra la mia poltrona. Sentivo freddo e il mio corpo era attraversato in continuazione da brividi che non riuscivo a controllare. Tuttora non so dire se erano causati dal condizionamento dell’aria o, piuttosto, dal mio condizionamento mentale.
‘Che cosa ci faccio io qui? Fatemi scendere, per favore, io non dovrei essere qui ora!’, pensavo mentre l’aereo cominciava a rollare sulla pista di decollo, per poi sollevarsi in punta e staccarsi dal suolo.
Osservavo ancora le persone intorno a me, era diventato il mio passatempo per quella giornata. Navigavo nel mare aperto dei pensieri che potevano impregnare le loro menti in quei momenti, mi perdevo nei sorrisi intensi e nel chiacchiericcio esasperato e amalgamato dal rumore dei motori dell’aereo, mentre le hostess passavano lungo il corridoio offrendoci dei drink. La mia non sarebbe stata una vacanza, pensai. Voltai lo sguardo verso il finestrino e notai che la tendina oscurante era rimasta aperta, vedevo le case e le strade ormai lontane farsi via via sempre più piccole. Erano parte di una fitta trama di costruzioni in cemento che racchiudevano persone impercettibili ai miei occhi. Era vero quello che mia madre mi diceva quando ero piccola:
Quando pretendi di voler vedere tutto, perdi la tua sensibilità verso il dettaglio e tutto appare fermo ai tuoi occhi. Non pretendere di voler conoscere o controllare tutto e tutti perché comunque non ti servirà e alla fine ti accorgerai di non aver visto proprio nulla. Concentrati piuttosto sul dettaglio, perché è su questo che puoi agire, quel dettaglio che tu stessa sei nel mondo e che è capace di farlo muovere ed evolvere .
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