Brian Stableford - Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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Anche le ombre, in alto sulle pareti della colonna ettagonale, presero forma, simili a figure che volteggiavano e si contorcevano seguendo la melodia del canto, con lunghi capelli fluttuanti e braccia flessuose che si muovevano come onde sul mare.

Ma quando ci fermammo per osservare più da vicino, quando tendemmo le orecchie per cogliere quel ritmo appena percettibile, c’erano silenzio e oscurità. E così proseguimmo, salendo in tondo, finché nelle nostre menti risuonarono suoni lontani e si riflessero immagini sfuggenti. Persino io avevo trovato il coraggio di soffocare la paura, ma in nessun caso gli altri sarebbero tornati indietro e quindi non avevo altra scelta se non quella di seguirli. John non sarebbe mai ritornato a vagare attraverso corridoi deserti né sarebbe uscito dal castello per immergersi nuovamente nella notte fino a quando non avessimo completato la nostra esplorazione.

Ma il tremolio di suoni e d’immagini persisteva. Non era la nostra fiamma a proiettare quelle ombre fugaci né l’eco del nostro movimento a creare quella cantilena ritmica. Era un altro tipo di eco: il riflesso del passato, un residuo che nascondeva il volto del tempo.

In sé le ombre non erano pericolose, non erano nemmeno spaventose o aggressive. Era la loro caducità e il fatto che non riuscivo a individuarne l’origine che mi disturbavano perché mi facevano dubitare di me stesso.

Uscimmo all’esterno da una finestra, una misera fenditura verticale costruita più per servire da feritoia che per lasciare filtrare la luce. C’era silenzio, fuori… la calma sonnolenta di una normale notte… e solo il bagliore di stelle invernali e la luce di quella strana luna disturbavano la tranquillità. Era lo stesso paesaggio che avevamo lasciato e la cosa mi tranquillizzò senza che riuscissi a trovare un motivo preciso.

Fu lì, nella parte più remota del grande salone ettagonale, che udii quelle voci musicali vibrare nelle mie orecchie e seppi con certezza che finalmente erano giunte e sarebbero rimaste. Per vedere le ombre proiettate dal fuoco non c’era un passaggio diretto verso il salone, così cominciammo a ritornare sui nostri passi per cercarle.

Salimmo fino alla balconata più alta. Questa era coperta da un tetto formato da travi enormi e da lastre di pietra e ardesia intonacate malamente, le stesse del soffitto del castello, e si trovava esattamente di fronte all’altare decorato. Adesso il ritmo era ben definito, così come lo erano coloro che cantavano e coloro che proiettavano le ombre. Joaz abbassò la torcia e la spense nella polvere. Era diventata inutile.

Di fronte all’altare c’era un enorme fuoco che protendeva in alto le fiamme e il cui fumo annebbiava la stanza e le dava un tocco surreale che nemmeno la mia immaginazione sarebbe riuscita a conferirle.

Intorno al fuoco e all’altare, accovacciate in semicerchio, ondeggiavano al ritmo di una cantilena alcune figure minuscole, simili a nani, la cui pelle liscia e sudata rifletteva la luce del fuoco. Piccoli crani rasati con occhi scavati e vivaci sormontavano corpi nudi e rachitici che oscillavano da una parte all’altra in perfetta armonia e con un sincronismo degno di un pendolo.

Fuori del semicerchio c’era un eterogeneo raggruppamento di fedeli: in quella notte d’uguaglianza, il ricco e il povero si prostravano insieme davanti alla loro divinità.

Uomini e donne vestiti di velluto, pizzo, cuoio e vacchetta sedevano come incantati di fronte alle fiamme impazzite e alla esasperante grazia dei sacerdoti che continuavano a oscillare. Loro però stavano immobili e non seguivano il monotono pulsare della preghiera che ormai doveva essersi impadronita delle loro menti gettandole in un caos di fanatismo in cui il mondo non esisteva più e la dea era tutto. Gli aristocratici e i poveracci, gli invidiosi e i buoni, gli astiosi e i gioiosi avevano tutti un’identica espressione, pensavano tutti la stessa cosa poiché quello era il momento dell’identità. Quello era il momento in cui ciò che rende una donna cieca e zoppa uguale a una principessa era posto forzatamente dinanzi alle loro coscienze.

Entro il confine segnato dal semicerchio di sacerdoti, all’interno dell’area dominata dalla grande dea, danzavano tre figure le cui ombre volteggiavano sul muro. Erano tre donne che mostravano un portamento eretto, movimenti aggraziati e una bellezza che risultava loro solo in parte. Appartenevano alla dea, erano la dea, poiché stavano all’interno del semicerchio. Per questa ragione non avevano sul viso l’espressione di adorazione ebete dei devoti, né erano cadaveri animati come quei sacerdoti-burattini che cantavano ottusamente. Le danzatrici erano completamente e assolutamente vive, godevano di una vita aliena e innaturale poiché ognuna di loro possedeva un eccesso di umanità. I loro visi erano i molteplici visi della dea, celestiali e soffusi, con uno splendore e una bellezza profani. L’ira delle immagini scolpite non appariva minimamente su quei volti, forse perché era riferita a un aspetto differente della dea, forse era simbolica, o forse dominava solo l’immaginazione dei vari artisti che le avevano create. Qualunque fosse la ragione, nella realtà questo sentimento non si manifestava affatto. Non che la dea fosse benigna: la statura delle danzatrici rifletteva potenza e grandezza, ma le emozioni non erano emozioni umane.

All’improvviso, con una grazia e una tranquillità inquietanti, una delle danzatrici si gettò volteggiando tra le fiamme. Sul raso delle sue vesti e sui suoi lunghi capelli serici sbocciarono immediatamente le fiamme e il corpo cominciò ad ardere. La danza continuò. Non era la danza spasmodica e rivoltante dell’agonia, ma una fluida espressione di vita.

Solo quando le fiamme la consumarono, la danzatrice cadde a terra per abbracciare più intimamente il fuoco e solo allora sembrò spirare. La sua morte non impressionò le altre danzatrici, né il coro di sacerdoti né i fedeli dallo sguardo vitreo.

A turno ognuna delle danzatrici si gettò piroettando tra le fiamme, conservando la vita per istanti infiniti per poi cadere silenziosamente, ridotta a scheletro bruciato.

Poi comparve la dea. Incarnatasi della sostanza del loro sacrificio, dell’odore della brace e del miasma del loro trapasso, emerse dalle fiamme. Non si trattava di un semplice agglomerarsi di fumo, né di un’immagine tra le fiamme guizzanti. La sua era una presenza reale quanto le sette pareti della sala, reale quanto la gente che l’adorava. La dea era comparsa nel momento in cui i tre riflessi della sua bellezza si erano uniti nel fuoco.

Si contorse lentamente in una grottesca parodia della danza dei suoi surrogati, intrecciandosi alle fiamme e ai vortici di fumo. Era gigantesca. Per quando racchiusa nell’alone di fiamme, con la sua magnificenza e la sua forza riempiva il grande salone. Era bellissima. Nessuna donna era stata mai raffigurata a sua immagine: la razza dell’Uomo era semplicemente altra sostanza su cui lei posava il tallone, l’argilla sotto i suoi piedi. Era viva ed emanava un’energia incredibile e vibrante che colmava i suoi devoti sviando i loro pensieri più ardenti e materiali per incanalarli verso una ricerca interiore.

Si voltò e i capelli lucenti le fluttuarono sulle spalle. Per un istante i suoi pallidi occhi marmorei incontrarono quelli di Joaz, che si sporgeva dall’alto della balconata togliendo la visuale a me e a John. Forse sul suo bel viso si addolcì quell’aria di comando, forse per un secondo vi comparve un’emozione aliena. In quel momento gli occhi di Joaz divennero fissi come diamanti e i tratti del suo viso furono identici a quelli delle centinaia di facce sotto di lui. La sua coscienza e la sua sensibilità parevano scivolare via a poco a poco e Joaz divenne uno di loro, uno dei devoti, dei pagani, degli idolatri…

Poi fu giorno e Joaz ritornò in sé. Intorno a noi vi era una palude coperta di pellicola argentea costellata da isolotti con pini contorti ed erba secca. A sudest splendeva un pallido sole invernale.

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