Ma era solo illusione.
Mi strofinai gli occhi e asciugai il sudore dalla fronte e dalle tempie, stanco di seguire il vorticare di quelle strisce di luce colorata. Mi sedetti accanto a Xavier che respirava con grande affanno, a occhi chiusi, come se avesse rinunciato alla speranza di raggiungere un’altra parte della pianura e a continuare il tentativo di proseguire.
— Non è così terribile — gli dissi.
— No — rispose lui, lottando per trovare le forze. — È solo questo malessere. Fa vedere le cose molto peggiori di quello che sono. Sto tentando di andare avanti, di capire. Ma è tutto a posto. Ogni cosa passa. Ci sarà un nuovo giorno, lo so, solo è così difficile sentirlo.
— Il tempo si è davvero fermato? — domandai guardando in alto l’immobile sole.
— Uno squarcio nel tempo forse — propose Joaz. — Ma molto più probabilmente il problema è in noi. C’è qualcosa di sbagliato, ma lo troverò. Credetemi, lo troverò. Non resteremo bloccati qui per sempre.
— Ma a cosa serve continuare il cammino? — domandai. — Xavier non può più andare avanti.
— Dobbiamo farlo — disse John con determinazione. — Non possiamo fermarci. Anche se ci sembra di non andare da nessuna parte, di non combinare nulla, dobbiamo continuare. La droga dipende molto dal nostro stato mentale. Come dice Joaz, l’errore, se di errore si tratta, è in noi. Dobbiamo avere coraggio. E fede.
— Forse l’errore è solo in uno di noi — suggerii con l’amaro in bocca.
John scosse la testa.
— Siamo un tutt’uno, Matthew, per il nostro intento. Uno e uno solo. L’errore è in tutti noi. Siamo tutti l’uno nell’altro.
Chinai la testa per evitare il suo sguardo fisso su di me. Sapeva che non capivo ciò di cui stava parlando, ma per lui non aveva importanza. Forse, a modo suo, lui era tutti noi. Desiderai di avere un po’ di lui in me ad aiutarmi e a guidarmi.
Ora Joaz stava fissando lo stesso punto che fissavo io poco prima. Sembrava paralizzato, come del resto lo ero stato io.
Al centro di quel turbine di colori vi era una profonda depressione, di un nero intenso, che scintillava come ebano nella luce fioca. Il laghetto, nella sua confusa asimmetria, era disposto intorno a questo perno. Sebbene non riuscissi più a vedere la formazione di ghiaccio, continuavo ad avere nella mente immagini che si ravvivavano e svanivano seguendo il battito del mio cuore. Era come una ruota da preghiera le cui lodi erano colori. Era come uno specchio che rifletteva il mondo intero. Con uno sforzo di volontà cercai di liberarmi la mente. Le immagini vi si aggrapparono disperatamente, ma alla fine furono dissipate.
— Sembra — dissi — che guardare le cose richieda molte più energie di quanto dovrebbe, come se osservare significasse partecipare attivamente.
John mi sorrise, come se avessi detto qualcosa di grande importanza. — Hai ragione, Matthew. Hai ragione.
— Il sole non si muoverà più? — sussurrò Xavier.
Con due dita gli toccai la fronte. Era molto calda, troppo calda.
— Dobbiamo andare — disse John.
— No! — protestai. — Non puoi. Lo ucciderai.
— Moriremo tutti, se restiamo qui.
— È questione di poche ore, non può succedere niente.
— No! Può succedere eccome, e succederà. Dobbiamo andare. Quello che importa sono le nostre menti, non i nostri corpi. Coraggio, fede e speranza, è questo ciò che conta. Dobbiamo proseguire!
Ci ritrovammo di nuovo in marcia, sebbene non ricordo come fosse stata presa la decisione, ma non attraversammo il grande fiume, non ci dirigemmo neanche dove puntavamo prima di fermarci, cominciammo semplicemente a camminare.
Passammo vicino al lago.
Tutto intorno a quel gioiello grezzo, tranne dallo stretto sentiero che stavamo seguendo, si irradiavano i fili d’acqua che lo alimentavano e lo avevano creato e che un tempo ne avevano sostenuto la vitalità. Questi torrenti compivano il loro misterioso pellegrinaggio da ogni punto della superficie terrestre, per offrire ognuno il proprio dono di prosperità e lucentezza. L’essenza delle acque della Terra era concentrata lì per elargire ciò che avevano raggiunto, per creare una divinità, un dio dell’acqua generato in una valle lontana, eterno in un istante senza tempo.
E il nuovo mondo era presieduto dai contorni sfumati del sole e della luna e da una mobile fugacità. Dalla loro unione nasceva lo splendore che la loro presenza rischiarava. Lì noi eravamo stranieri, non avevamo nulla a che fare con quel mondo. Per noi in pratica non esisteva.
— Non è il nostro mondo, Joaz — disse Xavier. — Non abbiamo alcun diritto qui.
— Dobbiamo proseguire — disse il frate, testardo. All’improvviso mi accorsi che anche Joaz era molto, molto stanco.
— Joaz, credi veramente che ce ne andremo mai da qui? — domandò Xavier con rassegnazione.
John, la guida, si voltò senza smettere di camminare e disse: — Dobbiamo avere fede.
E forse fu proprio la fede a condurci fuori da quel territorio e in un’altra epoca. Non ne sono sicuro.
18. La città della notte perenne
Incontrammo Raon il Reietto in una città dove, come lui stesso disse, era sempre notte. Era un’antica città, ma ormai eravamo nel più antico dei mondi, dove tutto era segnato dalle carezze di migliaia di anni. Non solo ciò che era stato costruito dall’Uomo, ma anche quello che aveva creato la natura.
Vivendo in un presente in perenne movimento avevo individuato nel tempo la più importante di tutte le cause. Il flusso del tempo, credevo, determinava cambiamenti, invecchiava tutte le cose e le faceva evolvere. Adesso ero incline a considerare il tempo come l’ultimo di tutti gli effetti: una classificazione arbitraria imposta all’incessante e casuale flusso degli eventi dalla pochezza della comprensione umana e dalla mancanza di prospettiva.
C’era ben altro che il semplice ticchettio di un orologio, nei secoli vissuti dalla città dove la notte era eterna.
Raon ci raccontò la storia della città. Parlava in prima persona, ma anche come se raccontasse un mito… qualcosa di non reale e tanto meno parte del suo passato.
— La vedevo cavalcare giù per il pendio ogni mattina — ci raccontò — quando le stelle più luminose erano ancora visibili nel cielo d’occidente e solo le vette dei monti erano illuminate dal sole. Montava un cavallo bianchissimo seduta su una sella dorata di cuoio levigato, e anche le sue vesti erano gialle e splendenti.
“Mentre cavalcava, la seguivo dal cielo, con le ali semichiuse per sfruttare il sostegno dell’aria e mantenermi alla sua andatura. La seguivo ogni giorno, dal momento in cui compariva fino a quando lasciava la valle, molto oltre questa città.
“Guardava in alto un paio di volte e sorrideva alla mia veglia solitaria, salutandomi con gli occhi. Allora planavo sulla brezza e restavo sospeso accanto al suo cavallo, parlandole della città, della valle e del mio amore per lei. E all’improvviso, a est, il sole faceva capolino all’orizzonte, indugiando mentre noi attraversavamo il mondo.
“Non parlava mai, mi sorrideva solamente. Le sue labbra erano lisce e morbide, il viso pallido, gli occhi azzurri. Ogni suo sorriso m’induceva a parlare in fretta e le mie parole mi uscivano di bocca con tale velocità che non sapevo più che cosa dicessi.
“Le raccontai della mia vita, quella di Raon il Reietto che volava nel cielo silenzioso della valle sopra le case degli uomini e sotto i rifugi delle aquile, perché uomini e aquile erano miei nemici. Le confidai cosa pensavo e cosa provavo quando mi lasciavo andare nell’aria carica di pioggia o quando volteggiavo sotto le nuvole luminose nelle notti di plenilunio. Le dissi che non ero né uomo né uccello, ma qualcosa di diverso. Non nuovo, perché la mia specie era sulla Terra sin dalla comparsa dell’uomo e degli uccelli.
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