Era sincero. Avrei voluto potergli credere, ma sapevo che da lui avevo sempre tratto la mia forza. Era possibile che due persone traessero ciò di cui avevano bisogno l’una dall’altra? Da dove veniva tutta questa forza?
Non sapevo rispondere, non era il tipo di problemi per me. Non ero un pensatore, non nel modo in cui lo erano Joaz o Alvaro. Ero un uomo normale e tranquillo che viveva la sua vita, invece di cercarla.
Un tempo era John a essere perso nel mio mondo. Ora ero io a essere perso nel suo.
17. Altre terre, altri Signori
Il sole era una sfera cremisi nel cielo d’occidente. Una scia di nubi rosa e viola se ne stava immobile sotto il sole come un cuscino sul quale riposare. Nella penombra dell’est altri ciuffi di nuvole sorgevano dalle montagne schiudendosi come fiori. In alto il cielo era più limpido, interrotto solo dalla faccia argentea e sfregiata della luna al suo zenit. Era una luna assai più grande del normale, e a occhio nudo mostrava molti più dettagli della sua superficie inalterata nei secoli. L’uomo che sorrideva e la vecchia signora con il suo fardello di fascine che ero solito vedervi da bambino non erano più visibili. Sebbene le fattezze del satellite fossero le stesse, ora la sua vicinanza creava l’illusione di sinuosi dragoni cinesi che combattevano contro oscure figure blu incappucciate come monaci.
— Non è affatto quello che mi aspettavo — si lamentò Fra Xavier asciugandosi il sudore che gli colava sulle guance. Il viaggio iniziava a pesargli parecchio. Xavier non era in piena salute e cominciava a sembrare spaventato e riluttante. Mentre peggiorava, io mi ero acclimatato un poco, e ora provavo pena per lui.
— Altre terre — disse Fra Joaz, come se quella fosse una spiegazione sufficiente. John non fece alcun commento. Entrambi soffrivano per il caldo, ma non così tanto come il grassoccio Xavier.
— Forse è un’illusione, o forse no — commentai. — Non durerà per sempre. Ci dev’essere qualcosa al di là, qualcosa al di fuori.
Xavier restava in silenzio, risparmiando il fiato per camminare. Non appariva per nulla rassicurato. Aveva sul viso una smorfia di sofferenza, ma non chiese di riposare. Ci eravamo già fermati una volta in quella terra desolata che sembrava estendersi all’infinito nel tempo e nello spazio.
Anche con la luce del sole e della luna la Terra era poco illuminata. Il sole era molto fioco e la luna, nonostante la vicinanza, sembrava meno nitida e più rossastra. Una terza fonte di luce proveniva da sud, come una delicata e farinosa bufera di neve, da un’aurora scintillante sospesa sull’orizzonte come un’acconciatura fissata da un nastro. Non vi erano nuvole intorno, ma il cielo era macchiato di rosso e marrone, come se nell’aria vi fosse un pulviscolo o una rifrazione negli strati più alti dell’atmosfera.
Il terreno su cui camminavamo era scuro e solcato da mucchi cristallini simili a cera, infidi da attraversare, che mi facevano dolere gli occhi se li guardavo troppo a lungo. Non sapevo dire se la causa fosse la luce riflessa o una proprietà di quelle strane pietre. Grandi montagne, che sembravano avere la stessa composizione, cingevano l’orizzonte con massicci irregolari e creste frastagliate. Anch’esse scintillavano come per la neve, ma a quella distanza la luce era facilmente sopportabile. Le montagne sembravano mozziconi conici di candele consumate, e avevano spigoli arrotondati, come se fossero state levigate da un forte calore. Rivoli di roccia fusa si erano solidificati mentre scorrevano lungo i pendii e la pianura nero-rossa.
Il resto del terreno piatto era coperto di lava nera, cosparso qua e là da bianche incrostazioni di ghiaccio. Quei tratti, lo sapevamo per averli attraversati, erano duri ma friabili, cedevano sotto i piedi e rendevano più difficile il cammino. Dalla consistenza quella roba bianca sembrava sale, ma mi convinsi che fosse una sorta di cenere.
L’aridità e la desolazione erano di gran lunga la cosa peggiore che avessimo incontrato fino ad allora, e detestammo ogni istante trascorso in quel luogo, sebbene occasionalmente rimanessi colpito da formazioni di particolare bellezza e persino da una strana nostalgia. In genere, però, il paesaggio era solo malinconico.
— Non riesco a capire cosa abbia causato tutto questo — disse a un certo punto Xavier. — Non ho visto niente. E voi?
— Assolutamente niente — risposi. — Siamo arrivati troppo in fretta.
Gli altri due parvero più riluttanti a confessare che la loro onniscienza e capacità di comprensione avevano dei limiti.
— Non so cosa sia successo — confessò Joaz — ma si trova tra noi e il nostro destino. Possiamo evitarlo nel tempo o attraversarlo nello spazio.
— Non può durare per sempre — aggiunse John.
Xavier si lasciò cadere a terra, pieno di gratitudine, quando John, dopo questo commento, fermò Joan per riposare un momento.
— Non fermatevi troppo per me — disse Xavier senza pensarlo veramente.
— No, certo — rispose John. — Siamo tutti stanchi e abbiamo bisogno di riposo.
— Vi sto facendo rallentare.
— No, non è vero. Usciremo presto da qui. Non dobbiamo farci prendere dal panico.
— Nemmeno a me piace — confessai. — Non so cosa sia. Mi fa paura.
— Lo so — disse John. — Siamo tutti spaventati, ma dobbiamo attraversare questo tratto e lo attraverseremo in un modo o nell’altro. Abbiate fede.
Borbottai qualcosa riguardo a quello che pensavo della fede, ma sapevo che per Joaz e per Xavier era una cosa importante, e non volevo che mi sentissero. Voltai loro le spalle perché non vedessero l’espressione di disapprovazione che mi attraversò il viso e mi misi a osservare il paesaggio.
Era come se si fosse ghiacciata una lacrima nella grande pupilla della Terra. Poco più in basso rispetto a dove ci trovavamo, a circa un chilometro e mezzo, c’era un grande vortice vitreo. Sembrava essersi bloccato di colpo, come se all’improvviso il tempo si fosse fermato lasciandolo in sospeso. Dal vortice si dipartiva un fiume di ghiaccio grigio che aveva arrestato il suo corso fissandolo in una cascatella ghiacciata, mentre le sue onde s’infrangevano in statici spruzzi bianchi. Il fiume scompariva nelle pieghe rocciose lungo la riva di un lago circolare. Proprio davanti a noi, un altro “fiume” scorreva lontano sull’epidermide silicea della pianura. Fin dove arrivavo con lo sguardo l’acqua grigia e ghiacciata del fiume era screziata d’oro e di blu. Più lontano, il fiume si divideva in centinaia di piccoli rivoli, ciascuno splendente come argento satinato e in argini color della ruggine e del nero della cenere di legna.
Tutto immobile. Una promessa di vita che niente lasciava pensare sarebbe stata mantenuta.
Ghiacciato e statico com’era, con quelle increspature imprigionate e trattenute, il fiume presentava una barriera invalicabile al nostro stanco cammino. Mantenere l’equilibrio su quella superficie, con le suole lisce dei nostri sandali, sarebbe stato assolutamente impossibile. Ma dovevamo attraversarlo. Sapevo che l’impresa non sarebbe stata spaventosa come pareva da lontano. Il ghiaccio si sarebbe rivelato resistente. Solo da quella distanza l’illusione che avremmo camminato sull’acqua poteva sembrare vera.
Tornai a guardare quel vortice solido inciso sulla superficie levigata di un ampio bacino che riceveva l’afflusso di una moltitudine di corsi d’acqua minori e trascinava le loro acque nella stasi vorticosa intorno al gorgo.
Striature rosse e arancioni, che scorrevano incerte nella fioca luce del sole e della luna, si univano a verdi rivoli cristallini per riversarsi al centro del lago. Scie vitree bianche e rosa ruotavano e si intersecavano formando nel centro del vortice spirali scintillanti. Bagliori di un blu acqueo risplendevano come vetri di bottiglia colorati nella mutevole luce o brillavano, con un colore turchese più tenue, all’interno di un blocco di ghiaccio scuro. E i gialli roteavano e abbagliavano… si mescolavano alle sfumature più chiare o ai contorni viola… poi prendevano a turbinare… finalmente in movimento…
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