— Sta morendo lentamente — disse John.
Era questo che voleva dire quando aveva invitato Xavier a dormire.
Aveva ragione. Mentre il sole sorgeva, vedemmo Xavier scivolare nella più completa immobilità.
Fu Joaz, l’amico di Xavier, ad alzarsi per primo dopo aver appoggiato gentilmente la testa del morto sul terreno.
La città era stata completamente cancellata dallo scorrere del tempo.
— Il Reietto aveva detto la verità — dissi. — Per la città, almeno, era sempre notte.
19. Sotto stelle invernali
Nel crepuscolo dominava il grigio. Le pietre sgretolate, le finestre incrinate, l’edera che avvolgeva come in un sudario l’edificio… tutto era grigio. Di giorno avrebbe potuto dare una sensazione di serenità: un edificio frusto che mostrava la sua età nella polvere che il vento aveva eroso dai muri e nelle pietre che le bufere avevano scalzato dai bastioni e fatto cadere nel fossato pieno di fango secco.
Ma quando le ombre della sera e il pallido bagliore della luna scendevano sulla costruzione, i muri ormai sgretolati e i torrioni un tempo austeri assumevano un aspetto feroce, svettando fieramente nel cielo in un’eco di antiche glorie. Le fenditure che l’età aveva scavato erano nascoste da nere ombre taglienti che restituivano ai muri la loro antica solennità.
Alla luce del giorno la cittadella era un cadavere, un fragile guscio, sperduta e dimenticata. Ma la notte del nostro arrivo era ammantata d’ombra e, mascherata, aspettava baldanzosa lo scorrere delle ore notturne.
Sembrava che la luce effimera, apparsa solo dopo la morte di Xavier, ci avesse accompagnato da una notte a un’altra notte. Giungemmo alla cittadella per invaderla, penetrarla e rivelarne il vuoto, per dimostrare la sua vacuità e negarne la pretenziosità.
Il portone d’ingresso pendeva dai cardini, il ponte levatoio era stato da lungo tempo sostituito da pietre accatastate nel fossato asciutto per formare una strada rialzata. Di notte il buio avvolgeva quella zona e nascondeva abilmente il suo stato d’abbandono. Ma quella notte attraversammo quel manto invisibile, superammo il ponte di pietre, ci aprimmo un varco tra la porta scardinata e il freddo muro di pietra.
Nella destra Joaz reggeva una torcia per illuminare la strada, nella sinistra un lungo bastone per tastare il terreno. L’aria, carica di polvere, brillava alla luce tremolante della torcia. Ci fermammo per assaporare quell’atmosfera. Mi ero aspettato una sensazione di infinita tristezza e di maestosità ormai tramontata, ma restai deluso. Provai invece un sentimento di estraneità e di asprezza e di remoti ricordi.
Percorremmo facilmente i corridoi orientandoci senza difficoltà, ma la torcia raramente riusciva a illuminare il soffitto oltre al pavimento e sentivo che la nostra presenza nel castello era insignificante, esattamente come quella delle formiche o dei ragni che si muovevano freneticamente nelle sue cavità.
Giungemmo nel salone principale, un grande ambiente il cui soffitto era di sicuro il tetto della cittadella. Le pareti erano traforate da balconate e finestre che lasciavano immaginare la presenza di una moltitudine di stanze e stanzini raggruppati come un favo intorno al salone centrale. La stanza aveva sette lati, presumibilmente perché il numero sette aveva un significato mistico per gli architetti del castello che lo avevano progettato adottando una forma così inusuale.
Nel salone un tempo vi erano tavoli di quercia, sedie e panche, ma qualcuno, ormai morto da molto tempo, li aveva rimossi lasciando nella polvere piccoli segni sbiaditi. Rimaneva solo l’altare. Era un altare dedicato a una dea, le cui sembianze, ormai dimenticate, erano confusamente preservate da alcune immagini intagliate, in tempi e da mani differenti, su pannelli di legno posti verticalmente intorno alla pietra consacrata per sorreggerla. L’aspetto della dea era spaventoso, l’espressione adirata, ma il suo nome era troppo conosciuto, o troppo terribile, per essere inciso insieme alle fattezze e così era andato perso. Io però sapevo che non sarebbe stato piacevole sentire pronunciare il suo nome e sapevo anche che le sue sembianze, al di là di quelle immagini grossolane, sarebbero state altrettanto spiacevoli. Era una dea onorata dagli uomini, ma dall’essenza non umana. Gli uomini tendono a venerare ciò che vedono di più prezioso in se stessi o ciò che è del tutto sconosciuto e alieno a loro.
Joaz si fermò davanti all’altare per illuminare le incisioni ormai in parte distrutte. La forma della pietra sacra era semplicemente quella di un piedistallo di sette lati, convesso nella parte superiore. Su ognuno dei sette lati vi era un’immagine che raffigurava un aspetto della dea o una scena di adorazione, ma le incisioni di pietra erano state danneggiate maggiormente rispetto a quelle di legno, e il loro significato era ormai incomprensibile.
Joaz diede qualche colpetto alla lastra cercando di staccare col bastone appuntito le incrostazioni di polvere, ma la superficie esterna della pietra era fragile e si sgretolò, consegnando così altre immagini all’oblio.
Poi Joaz sollevò la fiaccola ed esaminò le incisioni in legno, fissandole nella memoria come se volesse essere sicuro di riconoscere la dea se mai l’avesse incontrata. Era molto silenzioso, dopo la morte di Xavier, e io temevo che adesso potesse toccare a lui. Sembrava che il fardello collettivo che Xavier si era assunto gravasse ora solo sulle sue spalle, e la malattia era evidente nel modo in cui camminava e nel modo in cui il suo viso era solcato dalla tensione.
Attraversammo le arcate in stile monastico, che sorreggevano la più bassa delle tante balconate affacciate sul salone, e l’irregolare labirinto di stanze poste a caso le une sulle altre, come una serie di blocchi caduti da una pila senza una simmetria o una logica apparente. Il percorso si articolava tra queste stanze, intrecciandosi e serpeggiando attorno al perimetro del castello.
John non mostrò la sua abituale impazienza. Sembrava aver accettato il fatto che non potevamo forzare il passo al fluire del tempo, ma piuttosto il contrario.
Talvolta passavamo accanto al grigio muro di cinta su cui il tempo aveva scavato piccoli buchi attraverso i quali filtrava la luce della luna, ma più spesso ci ritrovavamo all’esterno, sopra un alto muraglione, a guardare quell’oscurità che sembrava senza fine. Il battito regolare del bastone di Joaz ci rassicurava sulla solidità e sulla sicurezza della strada prescelta. Il nostro percorso si snodava in modo circolare, salendo impercettibilmente: un dislivello qui, un frammento di scala là. I muri erano spogli, senza muffe né parassiti, ma coperti da una polvere soffocante depositata dal tempo. I nostri passi echeggiavano debolmente mentre sollevavamo il tappeto di silenzio e calpestavamo la gelida pietra. Ma l’eco era attutita, smorzata dalla quiete del tempo. A volte i passi risuonavano come una litania di voci lontane e io risi un paio di volte a questo pensiero. Ma la mia risata produceva un’eco più aspra, simile al pulsare di piedi in movimento e a voci cadenzate che si alzano in una preghiera dalla melodia a note staccate, e dovevo fermarmi per permettere al cuore di riprendere a battere regolarmente.
Talvolta, attraversando una balconata o una nicchia che dava sul salone centrale, con la coda dell’occhio coglievo il bagliore di un’immagine, come se una fiamma proiettasse sul muro delle ombre sinuose. Ma quando mi voltavo, e con lo sguardo spaziavo su tutta l’apertura, mi accorgevo di essermi sbagliato. E quando una volta avanzai scrutando nella semioscurità, non vidi nulla salvo l’altare, che torreggiava invisibile, e la polvere.
Salendo verso la cittadella, questa impressione si accentuò sempre più. La litania, che cresceva e scompariva coperta dalla nostra eco, divenne più precisa, più simile a un linguaggio fluido e sconosciuto. Quando John ci fece fermare ad ascoltare quel suono, il misterioso canto continuò. In quel momento mi resi conto che sentivamo tutti la stessa cosa e che non era solo una mia illusione. La prima sensazione di debolezza ci obbligò a proseguire coprendo con i nostri passi e con lo struscio irregolare del bastone di Joaz il ronzio delle voci.
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