Ben Bova
Orion e la morte del tempo
Con Anya al mio fianco uscii dall’antico tempio nella calda luce del sole di un nuovo giorno. Tutt’intorno a noi la vegetazione cresceva lussureggiante: arbusti in fiore e alberi carichi di frutta, a perdita d’occhio.
C’incamminammo senza fretta lungo la riva del fiume, l’eterno Nilo, che scorreva imperterrito nel corso degli eoni.
— In che epoca ci troviamo? — domandai.
— Le Piramidi non sono ancora state costruite. La terra che un giorno sarà conosciuta come Sahara è ancora una prateria sterminata e brulicante di selvaggina. Orde di cacciatori la percorrono liberamente.
— E questo giardino? Lo si direbbe l’Eden.
Anya mi sorrise. — Non proprio. È la dimora della creatura raffigurata nella statua sull’altare. Mi voltai nuovamente verso il piccolo tempio di pietra. Era un edificio modesto, semplici blocchi di pietra posti l’uno sull’altro con un tetto piatto di assi di legno.
— Un giorno gli Egiziani lo venereranno come un dio potente e pericoloso — disse Anya. — Lo chiameranno Set.
— È uno dei Creatori?
— No — rispose lei. — Non è uno di noi. È un nemico: uno di quelli che cercano di distorcere il continuum a proprio vantaggio.
— Come il Radioso — osservai.
Anya mi lanciò un’occhiata severa. — Il Radioso, per quanto assetato di potere, se non altro agisce in favore della razza umana.
— È stato lui a crearla, a quanto dice.
— Lui fra gli altri — rispose lei, permettendo che un tenue sorriso formasse delle fossette sulle sue guance.
— Ma quest’altra creatura… Set, dal volto di lucertola?
Il sorriso scomparve dal bel volto di Anya. — Viene da un mondo lontano, Orion, e ha intenzione di spazzarci via dal continuum.
— E perché siamo qui, in questo tempo e in questo luogo?
— Per scovarlo e distruggerlo, amore mio — disse Anya. — Tu e io insieme, cacciatore e guerriero, attraverso lo spaziotempo.
Guardai nel profondo dei suoi occhi lucenti e compresi che quello era il mio destino. Ero Orion il Cacciatore. E con una simile dea guerriera al mio fianco, ogni universo era il mio territorio di caccia.
Un libro di versi sotto le fronde.
Una fiasca di vino, un tozzo di pane… e tu
Al mio fianco, che canti nel deserto…
Oh, allora anche il deserto sarebbe un paradiso!
Anya si tolse di dosso la lucente veste argentea e la lasciò cadere sul tappeto erboso. Sotto di essa indossava una tuta metallica che ricordavo vagamente di aver già visto in un’altra epoca, molti secoli prima. Aderiva perfettamente al suo corpo, dall’orlo degli stivali all’alto collare. Era una splendida dea con lunghi capelli neri che le scendevano lungo le spalle e occhi grigi e impenetrabili nei quali sembrava racchiusa l’essenza stessa del tempo.
Io indossavo soltanto le pelli che avevo portato nella mia precedente vita nell’antico Egitto. La ferita che mi aveva dato la morte era scomparsa. Assicurato alla coscia destra c’era il pugnale che mi ero procurato in quell’altra epoca. Un paio di sandali di corda costituivano tutto il resto del mio guardaroba.
— Vieni, Orion, dobbiamo andarcene da qui — disse Anya.
L’amavo eternamente e con tutto il cuore, come nessun altro uomo ha mai amato una donna. Avevo affrontato molte volte la morte per amor suo, e lei aveva sfidato i suoi stessi simili per rimanere sempre al mio fianco attraverso lo spaziotempo, in ogni epoca in cui mi avevano inviato. La morte non poteva dividerci; né il tempo o lo spazio.
Presi la sua mano nella mia, e insieme c’incamminammo per un ampio sentiero che si apriva fra alberi carichi di frutta.
Attraversammo il giardino per quelle che sembrarono molte ore, allontanandoci dalle rive del Nilo che scorreva paziente nella terra destinata un giorno a essere chiamata Egitto. Il sole si fece alto nel cielo, ma la giornata rimase piacevolmente fresca, con l’aria limpida e frizzante di un temperato pomeriggio di primavera. Greggi di nuvole simili a sbuffi di cotone punteggiavano il cielo azzurro. Una brezza fresca soffiava da quello che un giorno sarebbe stato l’impietosa fornace del Sahara.
Nonostante ciò che aveva detto Anya, quel luogo risvegliava nella mia mente le leggende che avevo sentito narrare sul giardino dell’Eden. Ai nostri lati file su file di alberi si stendevano a perdita d’occhio, eppure nessuno di essi era uguale all’altro. Dai loro rami pendevano frutti di ogni genere: mele, fichi, olive, susine, melagrane. Al di sopra di essi ondeggiavano palme maestose cariche di noci di cocco. I rovi occhieggiavano dai loro giacigli, stipati fra gli alberi, fioriti con tale profusione da rendere il parco sfolgorante di colori.
Eppure non c’era anima viva. Fra alberi e arbusti l’erba era tagliata ad altezza tanto metodicamente uniforme da sembrare quasi artificiale. Nessun insetto vi ronzava; nessun uccello batteva le ali tra le fronde degli alberi.
— Dove siamo diretti? — domandai.
— Lontano da qui — rispose Anya — il più velocemente possibile.
Mi avvicinai a un cespuglio sul quale crescevano manghi dall’aspetto succoso. Anya mi afferrò la mano.
— No!
— Ma ho fame.
— Sarà meglio aspettare di essere fuori da questo giardino. Altrimenti… — Si guardò alle spalle.
— Altrimenti apparirà un angelo con la spada fiammeggiante? — la schernii.
Anya rimase estremamente seria. — Orion, questo parco è un giardino botanico sperimentale, appartenente alla creatura la cui statua era nel tempio.
— Set?
La donna annuì. — Non siamo ancora pronti per incontrarlo. Siamo disarmati e del tutto impreparati.
— Ma che male può mai farci uno dei suoi frutti? Potremo sempre correre, anche a bocca piena.
Con un sorriso, Anya rispose:
— È molto sensibile verso le sue piante. In qualche modo riesce a capire quando qualcuno le tocca.
— E…?
— E ne uccide il responsabile.
— Non li scaglia nell’oscurità esterna, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte? — Notai che, sebbene la mia voce avesse assunto un tono canzonatorio, avevamo preso a camminare più velocemente.
— No. Si limita a ucciderli. Definitivamente, per l’eternità.
Ero morto parecchie volte, e sempre i Creatori mi avevano riportato in vita perché potessi servirli in un’altra epoca e in un altro luogo. Eppure temevo ancora la morte, l’agonia che l’accompagnava, la perdita e la separazione che comportava. E un nuovo tentacolo di paura mi straziava i nervi: Anya aveva paura. Un Creatore, una dea che poteva muoversi attraverso gli eoni con la stessa facilità con cui io ero in grado di camminare per quel sentiero… temeva visibilmente l’essere dall’aspetto di rettile la cui statua adornava il tempio presso le sponde del Nilo.
Chiusi gli occhi per evocare con maggiore chiarezza l’immagine di quella statua. A tutta prima avevo pensato trattarsi della figura di un uomo che indossasse una maschera rituale: il suo corpo era umano, ma il volto era simile a quello di un coccodrillo. Adesso che tornavo con la mente a quell’immagine, però, capii che quella prima impressione era stata piuttosto superficiale.
Il corpo era quello di un umanoide, questo è vero. Si ergeva su due gambe e aveva due braccia. Ma i suoi piedi erano artigli con tre dita dalle punte ricurve e acuminate. Le mani avevano due dita squamate con un pollice contrapposto a esse, e ugualmente munite di artigli. I fianchi e le spalle si univano in un modo che aveva ben poco di umano.
E il suo volto. Era un muso di rettile, ma diverso da tutti quelli che avevo visto prima d’allora: colmo di denti disposti in modo da poter dilaniare la carne; con gli occhi sporgenti, atti alla visione binoculare e protetti da sporgenze ossee; il cranio ricurvo e in grado di ospitare un cervello sufficientemente grande da esser capace di intelligenza.
Читать дальше