Ben Bova
La vendetta di Orion
Non sono un superuomo.
Certo, ho delle capacità che vanno molto al di là di quelle di una persona normale, però sono un umano e mortale come qualsiasi altro abitante della Terra.
E sono un uomo solo. Sono solo da una vita, e ho la mente annebbiata da strani sogni, e quando sono sveglio ho dei vaghi ricordi di altre vite, altre esistenze, ricordi tanto fantastici che non possono essere altro che fenomeni di compensazione di un subconscio chiuso e solitario.
Come quasi ogni giorno, pranzai tardi, di pomeriggio, e lasciai l’ufficio per raggiungere lo stesso piccolo ristorante dove mangiavo quasi sempre. Solo. Sedetti al solito tavolo, sbocconcellando il cibo e pensando alla grande solitudine che caratterizzava la mia vita.
Per caso alzai lo sguardo verso l’ingresso del locale, e fu allora che la vidi entrare… bella da non credere, alta e aggraziata, capelli neri come la notte e splendidi occhi grigi che racchiudevano l’eternità.
— Anya — sussurrai, anche se non sapevo assolutamente chi fosse. Eppure nel mio inconscio qualcosa sussultò di gioia, come se la conoscessi da secoli.
Sembrava che anche lei mi conoscesse. Sorridendo, venne dritta al mio tavolo. Mi alzai, euforico e confuso nello stesso tempo.
— Orion. — Mi tese la mano.
La presi e mi piegai a baciargliela. Poi scostai una sedia e la feci accomodare. Il cameriere si avvicinò e lei ordinò un bicchiere di vino rosso.
— Mi sembra di conoscerti da una vita — le dissi quando il cameriere se ne fu andato.
— Da molte vite — mi corresse lei, la voce bassa e melodiosa. — Non ricordi?
Chiusi gli occhi, concentrandomi, e un’ondata di ricordi mi assalì così all’improvviso da mozzarmi il respiro. Vidi un grande globo dorato lucente, e la figura tenebrosa di un uomo maligno, una foresta di alberi giganteschi, un deserto arido e desolato, e un mondo di ghiaccio. E lei, quella donna, chiusa in una corazza argentea che brillava nel buio.
— Io… ricordo… la morte — balbettai. — Il mondo, l’universo… lo spazio-tempo sgretolato.
Lei annuì seria. — È rimbalzato in un nuovo ciclo di espansione. Qualcosa che né Ormazd né Ahriman avevano previsto. Il continuum non termina. Ricomincia di nuovo.
— Ormazd — mormorai. — Ahriman. — Quei nomi suscitarono una reazione nella mia mente. Sentii la rabbia che cresceva in me, rabbia mista a paura e rancore. Ma non riuscivo a ricordare chi fossero quei due, né perché provocassero nel mio intimo simili fenomeni emotivi.
— Sono ancora là, a lottare, ad azzuffarsi — disse Anya. — Ma, grazie a te, Orion, sanno che il continuum non può essere distrutto tanto facilmente. Si perpetua.
— Quelle altre vite che ricordo… c’eri anche tu.
— Sì, e ci sarò anche in questa.
— Ti amavo, allora.
Il suo sorriso illuminò il mondo. — Mi ami adesso?
— Sì. — Non avevo il minimo dubbio. Quella certezza permeava ogni atomo del mio essere.
— Anch’io ti amo. Da sempre, per sempre.
— Ma presto io partirò.
— Lo so.
Dietro di lei, attraverso la vetrata del ristorante, si vedeva basso sull’orizzonte il profilo a mezzaluna di Saturno, la sua grossa mole tagliata dalla linea sottile degli anelli. Più in alto, il cielo di Titano presentava la sua solita tinta arancione opaco. L’astronave era parcheggiata in orbita lassù, in attesa che terminassimo i preparativi e ci imbarcassimo.
— Staremo via vent’anni — dissi.
— Raggiungerete il sistema Sirio, lo so.
— Un viaggio lungo.
— Non come certi viaggi che abbiamo già fatto, o che faremo un giorno — disse Anya.
— Cosa intendi dire?
— Te lo spiegherò durante il viaggio. — Mi sorrise di nuovo. — Avremo tempo in abbondanza per ricordare tutto.
Il cuore mi balzò in gola. — Vieni anche tu?
— Certo — rise lei. — Abbiamo diviso molte vite e molte morti. Non intendo separarmi da te proprio ora.
— Ma non ti ho vista alle riunioni di istruzione dell’equipaggio. Non sei sulla lista…
— Adesso ci sono. Viaggeremo verso le stelle insieme, amore. Ci attende una vita lunga e ricca. E forse anche qualcosa di più di una vita.
Mi sporsi sul tavolo e la baciai sulla bocca. La mia solitudine era finita, finalmente. Adesso potevo affrontare qualsiasi cosa. Ero pronto a sfidare l’universo.
Il colpo di una frusta sulla schiena nuda mi fece tornare alla realtà.
— Tira verso di te, bestione! Smetti di sognare ad occhi aperti, o ti sembrerà che i fulmini di Zeus si stiano scaricando sulla tua schiena!
Sedevo su una panca di legno ruvido lungo il parapetto superiore di una lunga imbarcazione sciabordante, con un pesante remo tra le mani. No, non un remo. Una pagaia. Stavamo remando energicamente, sotto un sole alto e caldo. Potevo vedere il sudore grondare lungo il costato emaciato e la spina dorsale dell’uomo davanti a me. C’erano segni di frustate sulla sua carnagione nocciola.
— Tira! — ruggì l’uomo con la frusta. — Mantieni il ritmo!
Non avevo addosso altro che un perizoma di pelle macchiata. Il sudore mi irritava gli occhi. La schiena e le braccia mi facevano male. Le mie mani erano callose e sporche.
L’imbarcazione somigliava a una canoa da guerra hawaiana. La prua si slanciava verso l’alto finendo in una grottesca polena intagliata, qualche crudele spirito demoniaco, immaginai, a protezione della nave e del suo equipaggio. Diedi un rapido sguardo intorno mentre immergevo la pagaia nel mare scuro e palpitante e contai quaranta rematori. In mezzo al ponte c’erano balle di merci, pecore legate e maiali che grugnivano a ogni rollio.
Il sole ardeva sopra di noi. Il vento era irregolare e leggero. L’unica vela era ammainata contro l’albero. Potevo sentire il fetore dello sterco degli animali. Verso poppa un uomo calvo e muscoloso batteva un mazzuolo su un tamburo piuttosto logoro, costante come un metronomo. Noi dovevamo affondare le pagaie nell’acqua a tempo con la sua battuta, o prendere una staffilata dalla frusta del capo rematore.
C’erano altri uomini riuniti a poppa, in piedi, che si riparavano gli occhi con una mano e indicavano qualcosa con l’altra mentre parlavano fra loro. Indossavano tuniche di lino pulito lunghe al ginocchio e mantelli rossi o blu che scendevano sino al polpaccio. Avevano piccole daghe alla cintura, più come ornamento che per combattere, pensai. Con l’impugnatura d’argento intarsiato. Sui loro mantelli, fermagli d’oro. Erano giovani, magri, con una leggera barba. Ma i loro visi erano austeri, non gai. Guardavano in direzione di qualcosa che sembrava preoccupare i loro spiriti giovanili. Seguii il loro sguardo e vidi un promontorio non molto lontano, un’altura rocciosa e senza un albero sul bordo di un sabbioso tratto di spiaggia. Evidentemente la nostra destinazione era al di là del promontorio.
“Dov’ero? Come c’ero arrivato?” Rovistai con frenesia nella mia mente. L’unico solido ricordo che riuscii a trovare fu quello di una donna bella, alta, dagli occhi grigi, che mi amava e che io amavo. Eravamo… un brivido di nerissima angoscia rifluì dentro di me. Era morta.
La mia mente cominciò a girare, come se nel mare si fosse aperto un vortice che mi trascinava con sé verso il fondo. Morta. Sì. C’era una nave, una nave molto diversa. Una nave che non viaggiava nell’acqua, ma nel vuoto infinito delle stelle. Io ero stato su quella nave con lei. Ed era esplosa. Lei era morta. Era stata uccisa. Tutti e due eravamo stati uccisi.
Eppure io vivevo, sudato, sporco, con la schiena che mi bruciava per le frustate, su quella canoa troppo grande e stranamente primitiva diretta verso una terra sconosciuta, sotto un cielo come l’ottone e senza una nuvola.
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