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Ben Bova: La vendetta di Orion

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Ben Bova La vendetta di Orion

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Polete mi chiamò. — Orion, tu devi essere il figlio di Ares! Un grande guerriero, per aver avuto la meglio sul principe Ettore!

Altre voci si unirono all’elogio, mentre io mi lasciavo scivolare giù dalla barricata traballante e saltavo sul terreno. Mi circondarono, battendomi le mani sulla schiena e sulle spalle, sorridendo, gridando. Qualcuno mi offrì una ciotola di vino.

— Hai salvato il campo!

— Hai fermato quei cavalli come se fossi Poseidone in persona!

Persino il capomastro mi guardò con sguardo indulgente. — Quello non era un comportamento da thes — disse, studiandomi attentamente, forse per la prima volta, con i suoi sporgenti occhi da rana. — Perché un guerriero lavora come salariato?

Senza nemmeno pensarci, risposi: — Un dovere che devo compiere. Un dovere nei confronti di un dio.

Si scostarono tutti. I sorrisi si trasformarono in reverente timore. Solo il capomastro ebbe il coraggio di restare fermo davanti a me. Annuì e disse con calma: — Capisco. Bene, il dio deve essere rimasto compiaciuto di te, stamattina.

Io mi strinsi nelle spalle. — Lo vedremo abbastanza presto.

Polete si mise al mio fianco. — Vieni, ti troverò un po’ di fuoco e del buon cibo caldo.

Lasciai che il vecchio cantastorie mi conducesse via.

— Sapevo che non eri un uomo comune — disse mentre passavamo tra le tende e le baracche. — Non uno con le tue spalle. Beh, sei alto quasi quanto il Grande Aiace. Un nobile, mi sono detto. Un nobile, come minimo.

Ciarlò e chiacchierò, dicendomi come le mie azioni apparivano ai suoi occhi, recitando la carneficina di quel giorno come se volesse imprimerla fermamente nella sua memoria per ricordarla in futuro. Tutti i capannelli di uomini che oltrepassavamo ci offrivano un po’ del loro pasto di mezzogiorno. Le donne del campo mi sorridevano. Alcune furono anche abbastanza coraggiose da avvicinarsi a noi e da offrirmi carne fresca e cipolle allo spiedo.

Polete le allontanò tutte. — Preoccupatevi della fame dei vostri padroni — disse brusco. — Bendate le loro ferite e versate su di loro unguenti odorosi. Dategli da mangiare, offritegli vino, e sbattete per loro i vostri occhi da bue!

A me disse: — Le donne sono la causa di tutti i mali del mondo, Orion. Stai attento, con loro.

— Ci sono donne schiave o thetes ? — chiesi.

— Non esistono donne thetes. È una cosa mai sentita. Una donna che lavora a salario? Mai sentito.

— Nemmeno prostitute?

— Ah! Nelle città sì, naturalmente. Prostitute del tempio. Ma non sono thetes. Non è affatto la stessa cosa.

— Allora le donne di qui…

— Schiave. Prigioniere. Sorelle e mogli di nemici uccisi, catturate razziando città e campagne.

Raggiungemmo un gruppo di uomini che sedeva intorno a uno dei fuochi più grandi, giù, quasi addosso alle barche incatramate. Alzarono lo sguardo e ci fecero posto. Sulla barca più vicina a noi era stato sospeso un telone per formare una tenda. Davanti, c’era una guardia con l’elmo, con un cane ben curato ai suoi piedi. Fissai la polena decorata dell’imbarcazione, una testa di delfino sogghignante contro lo sfondo blu scuro.

— Il campo di Ulisse — spiegò Polete a bassa voce, mentre ci sedevamo e ci venivano offerte generose scodelle di carne arrosto e calici di vino con il miele. — Questi sono Itacensi.

Lasciò cadere qualche goccia di vino per terra prima di bere, e fece fare lo stesso a me. — Omaggio agli dèi — mi ammaestrò Polete, sorpreso che non conoscessi l’usanza.

Gli uomini si complimentarono con me per l’impresa alla barricata, poi cominciarono a chiedersi quale dio particolare mi avesse ispirato un’azione così eroica. I favoriti erano Poseidone e Ares, anche se Atena era in buona posizione e lo stesso Zeus veniva menzionato ogni tanto. Essendo Greci, cominciarono presto a discutere appassionatamente tra loro senza prendersi il disturbo di chiedere a me.

Io ero ben lieto di lasciarli fare. Ascoltandoli mentre discutevano venni a sapere molto di quella guerra.

Non erano rimasti accampati a Troia per dieci anni, anche se avevano fatto incursioni nella regione ogni estate, per quasi tutto quel tempo. Achille, Menelao, Agamennone e gli altri re guerrieri avevano saccheggiato la costa Egea orientale, bruciando città e prendendo prigionieri, finché finalmente avevano trovato il coraggio, e le forze, per assediare la stessa Troia.

Ma senza Achille, il loro più grintoso combattente, gli uomini pensavano che le loro prospettive fossero incerte. A quanto pareva, Agamennone aveva dato in premio ad Achille una giovane prigioniera e poi se l’era ripresa, e quell’insulto era più di quanto il superbo guerriero potesse sopportare, persino dal Nobile Re.

— La cosa buffa in tutto questo — disse uno degli uomini, gettando un osso di agnello ben rosicchiato ai cani che gironzolavano intorno al nostro cerchio — è che Achille preferisce il suo amico Patroclo a qualunque donna.

Tutti annuirono e mormorarono assensi. La tensione tra Achille e Agamennone non era causata da un partner sessuale; era una faccenda di onore e di orgoglio testardo. Da entrambe le parti, per quanto potevo vedere.

Mentre mangiavamo e parlavamo il cielo divenne più scuro e il tuono rombò dall’entroterra.

— Il Padre Zeus parla dal Monte Ida — disse Polete.

Uno dei soldati di fanteria, con il farsetto di pelle macchiato di schizzi di grasso e di sangue, sorrise verso il cielo nuvoloso. — Forse Zeus ci darà il pomeriggio libero.

— Non si può combattere con la pioggia — fu d’accordo qualcun altro.

E infatti, dopo pochi minuti, cominciò a piovere a dirotto. Ci sparpagliammo in cerca di qualunque riparo potessimo trovare. Polete ed io ci accovacciammo sotto la nave di Ulisse.

— Ora i grandi signori si incontreranno e fisseranno una tregua, in modo che le donne e gli schiavi possano uscire a raccogliere i corpi dei morti. Stanotte quei corpi saranno bruciati e verrà innalzato un tumulo sulle loro ossa. Sospirò. — È così che cominciano le fortificazioni, con un tumulo che copre i resti degli eroi uccisi.

Io mi tirai su a sedere e osservai la pioggia venire giù, trasformando la spiaggia in un pantano e punteggiando il mare di spruzzi. Il vento a raffiche trasportava grigie distese di pioggia attraverso la baia, e si fece così buio e nebbioso che non riuscivo a vedere il promontorio. Faceva freddo, il tempo era opprimente e non c’era nient’altro da fare che aspettare come animali silenziosi finché non fosse tornato il sole.

Mi rannicchiai più vicino che potei alla carena della nave, sentendomi infreddolito e completamente solo. Sapevo di non appartenere a quel tempo e a quel luogo. Ero stato esiliato lì dalla stessa potenza che aveva ucciso il mio amore.

“Servo un dio” avevo detto a quegli ingenui Achei. Sì, ma non volontariamente. Come una povera, stupida creatura che vaga alla cieca in mezzo a una foresta incommensurabile, reagisco a forze al di là della mia comprensione.

“Chi ha ispirato le mie gesta eroiche?” mi chiesi. La figura dorata del mio sogno che chiamava se stesso Apollo? Ma da quello che avevano detto gli uomini dell’accampamento, Apollo appoggiava i Troiani in quella guerra, non gli Achei. Mi ritrovai a temere il sonno. Sapevo che una volta addormentato avrei dovuto affrontare di nuovo quel… dio. Non trovavo un’altra parola per lui.

Improvvisamente mi resi conto che c’era qualcuno in piedi davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi un uomo robusto, dal torace possente, con una scura barba brizzolata e uno sguardo sicuro negli occhi. Portava una pelle di lupo attorno alla testa e alle spalle. La pioggia ci picchiava sopra. Indossava una tunica lunga sino al ginocchio e una spada allacciata sul fianco. Schinieri e polpacci erano coperti di fango. I pugni, grandi come martelli, piantati sui fianchi.

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