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Ben Bova: La vendetta di Orion

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Ben Bova La vendetta di Orion

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Presi un sorso della zuppa che si stava raffreddando rapidamente cercando qualcosa da dire.

— Almeno non ti hanno ucciso — fu tutto quello che riuscii a mettere insieme.

— Meglio se l’avessero fatto! — rispose Polete amaramente. — Sarei morto, nell’Ade, e sarebbe stata la fine di tutto. Invece sono qui, a sgobbare come un somaro, a lavorare come salariato.

— È già qualcosa, comunque — dissi io.

I suoi occhi si spostarono di scatto su di me. — Stai mangiando il tuo salario, Orion.

— Questa… questa è la nostra paga?

— Per il lavoro della giornata. Esattamente. Fammi vedere un thes con qualche soldo in tasca e io ti farò vedere un bel ladruncolo.

Trassi un profondo respiro.

— Più in basso degli schiavi, ecco dove siamo — disse Polete in un sussurro pesante di sonno arretrato. — Vermi sotto i loro piedi. Cani. È così che ci trattano. Ci fanno lavorare a morte e lasciano le nostre ossa a marcire dove siamo caduti.

Con un lungo sospiro Polete mise giù la ciotola vuota e si sdraiò sul terreno sabbioso. Stava diventando così buio che riuscivo a malapena a vedere la sua faccia. Il piccolo, misero fuoco si era ridotto a nient’altro che braci. Il vento che soffiava dal mare era freddo e tagliente. Automaticamente adattai la circolazione sanguigna per mantenermi più caldo possibile. Non c’erano coperte e nemmeno teloni cerati tra i corpi stravaccati dei thetes esausti. Dormivano con i loro perizomi e nient’altro.

Io mi sdraiai vicino al vecchio, poi mi ritrovai a domandarmi quanti anni avesse in realtà. Quaranta, forse. Dubitai che chiunque superasse di molto i cinquant’anni in quel periodo primitivo. Un paio di cani rognosi si contesero qualche osso vicino al fuoco, poi si sistemarono fianco a fianco, meglio protetti di noi contro la notte.

Proprio prima di chiudere gli occhi, colsi l’immagine delle torri a strapiombo di Troia, che si stagliavano scure contro il cielo di un viola sempre più profondo.

Agamennone. Troia. Come ero arrivato lì? Quanto tempo sarei potuto sopravvivere come qualcosa di più vile di uno schiavo?

Addormentarsi fu come entrare in un altro mondo. Il mio sogno era reale come la vita. Pensai che forse era la vita, una vita diversa su un piano diverso dell’esistenza.

Mi trovavo in un posto che non aveva né tempo né dimensione. Niente terra, niente mare, niente cielo. Nemmeno un orizzonte. Un grande bagliore dorato mi circondava, allargandosi all’infinito su tutti i lati, caldo e così luminoso da abbagliarmi gli occhi. Non potevo vedere nient’altro che il suo fulgore.

Senza sapere perché, cominciai a camminare. Lentamente, all’inizio, ma presto il mio passo si fece più rapido, come se sapessi dove mi stavo dirigendo e perché. Il tempo non aveva significato, lì, e camminai senza fermarmi, con i piedi nudi che posavano su qualcosa di solido sotto di me, anche se quando guardavo in basso non riuscivo a vedere nient’altro che la brillante luce dorata.

E poi lontano, molto lontano, vidi un luccichio che eclissava qualunque altra cosa. Un corpuscolo, un punto, una fonte di splendore che ardeva di oro puro e mi trascinava in avanti come una calamità attira una scheggia di ferro, come il sole infuocato richiama una cometa.

Corsi, volai verso quel bagliore bruciante. Con gli occhi dolorosamente abbagliati, il cuore che batteva selvaggiamente, il respiro che mi raschiava la gola.

Mi fermai e mi lasciai cadere in ginocchio.

Una forma umana sedeva davanti a me, più in alto rispetto al mio livello, sostenuta da niente di più consistente che la luce dorata. Ecco la fonte di tutto quello splendore. Brillava in modo così meraviglioso che i miei occhi si ferivano al solo guardarlo. Eppure non potevo distogliere lo sguardo.

Era splendido. Una folta chioma di capelli dorati, occhi spruzzati d’oro. La pelle che brillava di un bagliore vivificante. Un viso assolutamente stupendo, mascolino eppure dolce, calmo e sicuro, con un accenno di sorriso che gli increspava le labbra. Aveva le spalle larghe e il petto ampio e senza peli. Era nudo sino alla cintola, da cui cominciavano ad avvolgerlo stoffe d’oro risplendente.

— Mio povero Orion. — Il suo sorriso divenne quasi di scherno. — Sei certamente in un misero stato.

Io non sapevo cosa rispondere. Non potevo rispondere. La voce mi si congelò in gola.

— Ricordi il tuo Creatore? — chiese lui, sarcasticamente.

Io annuii in silenzio.

— Certo. Questo ricordo è radicato così profondamente dentro di te che solo la distruzione finale potrà cancellarlo.

Mi inginocchiai davanti a lui con la mente che mi girava vorticosamente piena di ricordi a metà, lottando per ritrovare la voce, per parlare, per domandargli…

— Ricordi il mio nome? — chiese.

Lo ricordai, quasi.

— Non importa. Per ora puoi chiamarmi Apollo. I tuoi compagni nella pianura di Ilio si riferiscono a me con questo nome.

Apollo. Il dio greco della luce e della bellezza. Certo. Il dio della musica e della medicina; o era biotecnologia, mi chiesi. Ma mi sembrava di ricordare che aveva un altro nome, in un altro tempo. E c’erano altri dei, anche. E una dea, quella che io amavo.

— Sono duro con te, Orion, perché mi hai disobbedito nella faccenda di Ahriman. Hai deliberatamente distorto il corso del continuum, per puro sentimentalismo.

— Per amore — risposi. — La mia voce era debole, affannosa. Ma parlai.

— Tu sei una creatura, Orion — sogghignò lui. — Cosa puoi sapere dell’amore?

— La donna — mi difesi. — La dea…

— È morta.

La sua voce era fredda e implacabile come il fato. Sentii il ghiaccio che mi congelava le vene.

— Tu l’hai uccisa — affermai testardo.

Il suo sorriso di scherno svanì in una cupa solennità. — In un certo senso, Orion, sei stato tu a ucciderla. Osando amare una dea, tentandola perché assumesse forma umana, hai sancito la sua condanna.

— Tu dai a me la colpa…

— Colpa? Un dio non incolpa. Orion. Un dio punisce. O premia. Tu vieni punito, per il momento. Accetta la tua sorte e la tua punizione cesserà.

— E poi?

Gli tornò il sorriso. — Ho altri compiti per te, creatura mia, dopo che i Troiani avranno battuto questi barbari Greci. Non avere paura, non ho intenzione di farti morire di nuovo, non per ora. C’è molto lavoro per te in quest’era.

Cominciai a chiedergli cosa intendesse, ma un piede chiuso in un sandalo mi colpì sulle costole, e aprendo gli occhi vidi che mi trovavo sulla spiaggia, tra i Greci che stavano assediando Troia. Un thes, il più misero dei miseri.

— In piedi! C’è del lavoro da fare! — gridò l’uomo.

Alzai lo sguardo su di lui, ma vidi invece il fulgore accecante del sole mattutino. Fremetti e chinai la testa.

3

Ci fu data una ciotola colma di una leggera minestra d’orzo e avena e poi fummo messi a lavorare con badili di legno ai terrapieni in difesa della spiaggia.

Mentre i guerrieri facevano una tranquilla colazione a base di montone e di pane non lievitato, e i loro uomini d’armi aggiogavano i cavalli ai carri e affilavano lance e spade, noi passammo rumorosamente attraverso una delle uscite di fortuna nelle fortificazioni che erano state innalzate lungo la spiaggia. Il nostro compito, in quel bel mattino ventoso, era di approfondire la trincea davanti alle fortificazioni e di ammucchiarci sopra i materiali di sterro. Questo avrebbe reso ancora più difficile per le truppe o i carri troiani raggiungere le navi.

Lavorammo per buona parte della mattinata. Il cielo era un anfiteatro scintillante di chiarore, un blu senza nubi punteggiato di gabbiani urlanti che si libravano in volo sopra di noi. Il mare era di un blu ancora più scuro, solcato senza posa dalle creste delle bianche onde schiumose. Le protuberanze marrone grigiastro delle isole si innalzavano in un lontano orizzonte. Dalla parte opposta, le torri e le mura di Troia sembravano incombere torve su di noi al di là della pianura. Più lontano, le colline erano scure di alberi e dietro ancora si alzavano le montagne nebbiose.

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