Brian Stableford - Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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Ero felice della presenza di John accanto a me, potevo sentirlo e vederlo senza pericolo di perderlo nella nebbia; ma anche i suoi lineamenti cominciarono a tremolare e a cambiare, quando la luce iniziò a modificare in modo bizzarro quei tratti che sapevo essere reali e concreti: immaginai che fossero semplicemente illusioni.

Talvolta il cantore di sogni scompariva quasi del tutto, assumendo delle pseudo forme, come quella di una scimmia o di un grosso uccello. Una volta si trasformò in un’arpa, e io sentii quasi le corde vibrare, ma il silenzio prevalse e l’illusione scomparve in un istante. Mi chiesi quali strane forme plasmate dalla nebbia i suoi occhi vedessero in noi.

Alla fine fu la confusione ad avere la meglio. — Non riesco più a distinguere nulla — dissi.

— Nemmeno io — mi fece eco John. — Ma se vuoi, puoi chiudere gli occhi e affidarti agli altri sensi. Io sono qui, accanto a te.

— Hai gli occhi chiusi? — volli sapere.

— Sì.

Lo imitai. Potevo sentire il solido legno della barca sotto i piedi e le natiche. Potevo sentire i miei vestiti a contatto con quelli di John lungo tutto il lato sinistro. Mi sembrò di riuscire a sentire anche il suo respiro.

— È reale — dissi. — È reale.

— Nulla è reale, eccetto una sola cosa, e questa cosa è più di voi, di me o del lago di luce — disse il cantore di sogni.

Non gli badai.

— L’arpa è reale, vero? — domandò John.

— Una parte. L’intero universo ne è una parte.

— E cos’è questa cosa?

— Lo vedrai a tempo debito. La nostra traversata è quasi finita.

Entrambi ricaddero nel silenzio e io rivolsi l’attenzione alla luce che ci avvolgeva, pronto a richiudere gli occhi nel caso mi fossi sentito nuovamente confuso o spaventato. Il mio mondo sembrava una lastra di vetro crepata qua e là, argentata per formare specchi in miniatura e trasparente al punto che riuscivo a vedervi l’eternità. A volte la luce echeggiava, risuonava e fluttuava, come se in quello schema ci fosse una logica che mi sfuggiva. Sembrava che tutte le proprietà ascrivibili alla materia, allo spazio e al tempo intesi come entità ben distinte, fossero qui riunite in un’unica forma basilare.

Lentamente la nebbia cominciò a diradarsi. I contorni del cantore di sogni sfumarono nelle stesse forme abbozzate in precedenza, in un tormentoso chiaroscuro, poi infine nelle sue sembianze originarie.

Dall’aria scomparvero gradatamente mosaici di colori, e le facce svanirono in lontananza. Eravamo soli.

— Là — indicò il cantore di sogni.

Sembrava una città: minareti e pagode, guglie e spigoli vivi, tutti di una sostanza simile a una luce colloidale, come se il lago si fosse rappreso in una serie di dipinti tridimensionali.

Per un istante capii qualcosa dell’affinità tra il lago e l’arpa che il cantore di sogni portava sempre con sé. Nel lago c’era tutto quello che si poteva “vedere” nel mondo. Nell’arpa c’era tutto quello che si poteva “sentire”. Un diversivo dei sogni, ecco cos’era.

— Hai creato anche questo! — lo accusai.

— Sto cercando di farlo — disse lui. — Ma è molto difficile. Sto tentando di completare la mia opera ma ci sono talmente tante cose da fare. Un giorno però costruirò molto più di questa città. Costruirò l’intero universo. Creerò qualcosa di cui l’universo sarà solo una parte.

— Cos’è questo posto? — domandò John, che contemplava la schiera di torri e cupole.

— È mio — rispose semplicemente il vecchio cantore di sogni.

— Ma cosa dovrebbe essere? — insistette John, in tono pressante, come se fosse sul punto di scoprire qualcosa di importante. Non avevo certo bisogno di chiedere cosa fosse.

— È tutto me stesso. Il mio sapere, i miei ricordi, le mie emozioni, le mie molteplici forme. È ogni mio pensiero espresso in un’entità singola, ogni mio sogno realizzato. È il limite della mia creazione.

— Il limite? — domandò John amaramente. — Non potrà esserci altro? Sei vecchio, ma non stai per morire.

— Non ho più tempo.

— No — disse John con un accenno di rassegnazione.

Rimasi in silenzio, seguendo le infinite rotondità della città.

— Non sei l’Uomo Futuro, vero? — continuò John. Ora aveva un tono triste, non accusatorio. Aveva smesso di prendersela con il cantore di sogni per ciò che non era. — Sei solo un’altra tappa sul cammino. Sei più di noi ma non sei ancora abbastanza.

— Le cose non cambiano così in fretta, John — gli ricordai. — Ci vuole tempo.

— Non c’è tempo. Tutti i cambiamenti sono qui.

— Ma ci sono ancora delle tappe, dei livelli intermedi. L’Uomo Futuro deve svilupparsi, John.

— Ma è qui, da qualche parte.

Mi chiesi se lo fosse veramente.

Guardai il cantore di sogni che avvolgeva le sue dita contorte intorno all’arpa e la stringeva a sé. E se lui fosse davvero divenuto l’Uomo Futuro, cosa sarebbe accaduto adesso?

Proprio così, cosa sarebbe accaduto?

— Mi dispiace — disse il cantore di sogni risvegliando le corde dell’arpa e riempiendo con una melodia maestosa e trionfale quel silenzio opprimente. — Sono solo quello che sono.

23. L’ultimo uomo

L’uomo risalì la collina e ci venne incontro. Il cantore di sogni canterellava a bocca chiusa, seguendo la dolce melodia dell’arpa, ma senza mai distogliere lo sguardo dallo straniero. L’uomo alto, bruno, cadaverico aveva capelli corti e braccia anormalmente lunghe.

— Io ti conosco — disse al cantore di sogni.

Il vecchio fermò le corde dell’arpa. — Sono il cantore di sogni.

— E io sono l’ultimo uomo — sentenziò lo straniero con pretenziosità. Mi guardò come per sfidarmi a contraddirlo, e io non riuscii a sostenere il suo sguardo. John invece lo sostenne, ma non aprì bocca.

— Cosa vuoi da me? — gli domandò il cantore di sogni.

— Voglio viaggiare con te per un po’. Penso che tu mi possa portare là dove devo andare.

— Hai una meta? — chiese il vecchio appoggiandosi all’arpa. — Di quale meta può aver bisogno l’ultimo uomo? Dov’è questo posto in cui devi andare?

Gli occhi scuri dell’uomo si chiusero. — Allora non mi ci condurrai?

Il cantore di sogni rise sommessamente. — Ma certo.

— Ma certo — gli fece eco l’altro. — Non puoi dirmi di no, vero?

— Perché dovrei farlo? Sono vecchio, ho vissuto novecento anni e in me vivono e scorrono innumerevoli secoli precedenti. E ora tu sei l’ultimo uomo, a parte i viaggiatori nel tempo. Ti porterò ovunque tu voglia andare.

L’ultimo uomo scosse lentamente la testa. — Novecento anni — ripeté, ma non lo disse con reverenza, come aveva fatto il cantore di sogni, né con soggezione, come avrei potuto dirlo io, ma con tono neutro, come se la semplice menzione del tempo avesse perso significato. E forse era davvero così. Mi chiesi se sarebbe rimasto impressionato sapendo quanti anni avevamo visto scorrere io e John. Probabilmente no.

— Dove vuoi andare? — domandò ancora il cantore di sogni.

— Dove solo l’arpa può condurmi.

Il vecchio annuì. Senza altre parole prese l’arpa e cominciò a discendere la collina. In quel punto il mare era nascosto da un’altura, ma sapevo che eravamo a un centinaio di metri dalla spiaggia. John aveva seguito il vecchio, e sembrava ancora contento di seguirlo, anche se ormai aveva abbandonato l’idea che forse avevamo trovato l’Uomo Futuro.

L’ultimo uomo camminò accanto a me per alcuni minuti, poi raggiunse il cantore di sogni e si pose a fianco a lui.

Dinanzi a noi c’era il gigantesco occhio del sole: ma ogni volta che lo guardavamo sembrava emanare sempre meno luce. Adesso era rosso scuro. Alle nostre spalle c’erano montagne e foreste. Eravamo giunti in una terra che assomigliava a quella che avevano abbandonato, e qui non c’era nulla che non avessimo già visto nel nostro tempo. Il caos era composto di frammenti di ogni luogo e non tutto era stato riplasmato da creatori come il cantore di sogni.

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