Si accese una lampada e quel vecchiaccio ci guardò sfoderando un bel ghigno che mostrò tre molari marci e gengive consumate. Ebbi un sussulto e desiderai che non fossimo mai entrati.
— Accomodatevi — ci disse come se fossimo suoi amici di vecchia data. — Abbiamo già cominciato. Proprio quello che fa per voi. — Si fermò improvvisamente. — Potete pagare, vero?
— Per la stanza? — domandò John.
L’altro sorrise nuovamente. — Tutto compreso — disse.
— Tutto cosa?
— Tutto? Tutto? — borbottò il vecchio in maniera quasi incomprensibile. — Cristo, amico. Vuoi evasione o no?
John si illuminò sentendo parlare per la seconda volta di evasione, e la sua mente ritornò alla solita idea fissa. — Potete portarmi indietro nel tempo?
— Indietro nel tempo, avanti nel tempo, dall’altra parte del tempo. Qui, là o dovunque vogliate. Avete i soldi?
— Potete provare quello che dite? — chiese John. Eravamo entrambi sconcertati. Ovviamente non era l’uomo che viaggiava nel tempo, però sembrava offrirci una fuga nel tempo. Alla richiesta di una prova, il nanerottolo parve confuso. John si voltò verso di me e sollevò una mano per indicare la porta sprangata. Di colpo l’altro si agitò.
— Pagherete più tardi — disse. — Non andatevene.
— Più tardi? — ripeté John incredulo. — Volete dire dopo?
— Usciamo di qui — dissi.
Ma il nano coprì le mie parole. — D’accordo, va bene. Dopo, più tardi, quando avete finito.
John era perplesso, ma profondamente incuriosito.
— Potrò andare ovunque vorrò? — chiese.
— “Ovunque” — sottolineò il nano. — Ci puoi portare anche il tuo maledetto cavallo, per quel che me ne importa.
— Fateci strada — disse John.
— No! — protestai.
— Oh, via — disse John. — Sei il doppio di lui. Cosa potrà farci?
Per quel che ne sapevo poteva avere cinquanta fratelli al piano di sopra. Mi ricordai della luce alle finestre. Stava accadendo “qualcosa”, ma la curiosità non mi avrebbe spinto in trappola.
— No — dissi.
John mi afferrò per un braccio e mi tirò, ma io feci resistenza.
— Senti — disse. — Cosa può succedere? Non vuoi saperlo?
— No.
— E va bene. Andrò da solo.
Il nano, con la lampada in mano, si era incamminato lungo il corridoio e, saliti i primi tre gradini di una scala, si era voltato per aspettarci. John gli andò dietro e io lo seguii pieno di paura per quel che poteva accadere.
Rimpiansi che John non avesse con sé la balestra, per quanto quell’aggeggio poco maneggevole difficilmente ci sarebbe stato utile lì dentro. Le chiazze di umidità sul soffitto gocciolavano, scarafaggi e millepiedi, spaventati dalla luce, tornavano a nascondersi strisciando nelle fessure. Passammo davanti a parecchie stanze dalle cui porte filtrava una pallida luce. Fui felice di notare che le porte non avevano né serrature né chiavistelli esterni.
Finalmente, dopo circa tre piani, il nano aprì una porta e ci introdusse in una stanza quadrata e, a parte due letti, senza mobilio. Tirai un respiro di sollievo. Dopotutto era possibile che la strana creatura ci stesse semplicemente offrendo un letto per la notte? Alla luce fioca della lanterna mi accorsi che John era vagamente deluso.
Il nano posò la lampada sul pavimento e uscì dalla stanza. Chiusi la porta.
— Bene — dissi. — Che ne pensi?
— Non ti stanchi mai di fare sempre la stessa domanda? — rispose John, seccato. — Sai esattamente quello che so io!
— Ma eri tu che parlavi con lui — protestai. — Devi esserti fatto un’opinione a proposito di quello che intendeva fare. Diavolo, è stata una tua decisione!
John alzò le spalle. — Non ne ho la minima idea — ammise. — Ma non c’è niente di sbagliato a volerlo scoprire.
— Oh, no! — dissi. — Proprio niente. Ci accolgono così ovunque andiamo. Dove altro potremmo mai trovare dei letti per la notte?
— Ah, ah — rispose per nulla divertito.
— E cos’era tutto quel parlare di fuga?
— Non lo so. Sei sicuro che abbia detto “fuga”?
— Se sono sicuro? Sei tu quello che voleva…
— Oh, sta’ zitto! — disse, e si lasciò cadere su uno dei letti. Lo tastò con sospetto. — Be’ — annunciò — forse non sarà pulito, ma non c’è niente che striscia. Sembra che la gente di montagna usi il sapone. Sono stanco.
Rinunciai a discutere, mi sedetti sull’altro letto e lo guardai. John finse di non badare a me e fece di tutto per farmi credere che si stava preparando per dormire. Imprecai silenziosamente e mi sdraiai osservando il soffitto dipinto, tentando ancora di capire cos’era successo.
— Spengo la lampada? — mi chiese John.
— No! — risposi con una sorta di grugnito rammentandomi delle luci che risplendevano in tutte le altre stanze. Mi misi nuovamente a sedere.
Il nano rientrò nella stanza, con la sua andatura dinoccolata, tenendo in mano qualcosa. Non riuscii a vedere cosa fosse perché si mise davanti alla luce restando in ombra.
— Sta’ fermo — disse, e mi trafisse.
Impiegai un tempo irragionevolmente lungo a capire che cos’era accaduto: il nano mi aveva conficcato nel braccio qualcosa di appuntito. Ma l’atteggiamento dell’uomo era insolito per un assassino. Il nano si comportava come se avesse fatto una cosa normalissima. Si voltò e si diresse verso l’altro letto. Passarono cinque o sei secondi prima che reagissi.
— Ehi! — urlai. Poi, rivolgendomi a John: — Sta’ attento!
— Tutto a posto — diceva intanto il nano, scostando la mano di John. — Fermo, per l’amor di Dio!
— Che stai facendo? — ringhiai con tono minaccioso, e mentre tentavo di alzarmi mi accorsi di avere la voce orribilmente impastata. — Lascialo stare!
All’improvviso avvertii un dolore acuto e un gran caldo. Confusamente vidi John colpire il nano con un calcio in faccia e strappargli di mano lo stiletto. Poi…
Scese una fitta nebbia di corpuscoli scintillanti d’oro e d’argento, e ogni suono scomparve. In quel pulviscolo fluttuavano minuscole moltitudini di fili invisibili che mi aderivano al cranio e mi penetravano nelle pulsanti circonvoluzioni del cervello. Riuscivo a udire il cuore che come un tamburo batteva all’impazzata coprendo col rumore i miei pensieri convulsi. Poi il battito si affievolì, e una sensazione di pace invase i miei timpani eccitati cancellando la rabbia e quel dolore acuto e penetrante al braccio.
Sentii la testa scendere sempre più giù, come se andasse scomparendo attraverso la gola e le viscere. Nei miei occhi esplosero dei colori che scintillavano in un vortice di arcobaleni, ondeggiavano e oscillavano.
Mi trovavo su una collinetta erbosa e intorno a me si estendeva una grande città articolata in modo bizzarro. Luccicava e risplendeva nella luce avvolgente del sole alla stessa stregua dei colori. Un milione di finestre ornate di tendine riflettevano la luce come tante facce di un diamante opaco.
Era tutto così bello, così meraviglioso.
Lo sgomento s’impadronì della mia mente impedendo il fluire dei pensieri. Ero completamente in balia di un impulso emozionale travolgente e mai sperimentato prima. Il mio debole cuore era dolorante per lo sforzo e cominciai a piangere.
Le pareti, miliardi di lucide pareli metalliche, vibravano al suono di una segreta melodia producendo un movimento che mai avrei immaginato potesse esistere. Tutta la gente del mondo radunata in una sola piazza a ballare e a muoversi freneticamente non avrebbe prodotto nemmeno la metà del movimento che animava la città.
Sulla città si libravano scintille luccicanti simili a fuochi d’artificio o a un enorme stormo di colibrì. La testa mi girava per l’immensità delle costruzioni e della vita e della gente. Un uomo venne in mio aiuto.
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