Brian Stableford - Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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— No davvero — ammisi allegramente pur rimpiangendo di essermi fatto tentare a parlare per primo. — La verità non mi preoccuperà mai, e nemmeno la falsità.

— L’Uomo Futuro è una verità concreta, Matthew.

— E quindi cos’è? — domandai. — Cos’è che scaturisce dalla nostra progenie e ci rende obsoleti?

— Un essere razionale — rispose Alvaro. — Un essere nato senza preconcetti in modo che la sua persona possa reagire con spontaneità di fronte alla realtà. Vedete, voi e io siamo istintivamente soggetti a pregiudizi perché abbiamo appreso tutto dai nostri genitori. Gli animali sono anche più limitati di noi dal momento che imparano molto poco e quasi tutto prima ancora di nascere.

“Penso che l’evoluzione dia i suoi frutti solo sui giovani. L’uomo nasce e ha vent’anni per svilupparsi, vent’anni per adeguarsi e accettare nuove realtà, per servirsi di nuove intuizioni. Il suo cervello si torma con l’esperienza e le due cose sono unite coerentemente in un unico elemento: la mente. L’Uomo Futuro sarà la tappa successiva di questa sequenza, o almeno credo. Naturalmente ricordatevi che non ci è dato sapere.

“L’Uomo Futuro non verrà condizionato dai geni. L’uomo è un gradino più in alto rispetto agli animali perché può controllare parzialmente l’ambiente che lo forma. L’Uomo Futuro sarà un gradino più su poiché non verrà minimamente influenzato dell’ambiente: sarà libero.”

— È un bel sogno — ammise John. Aveva avuto l’opportunità di diventare un dio, anche se per pochi istanti, e ne sentiva ancora l’effetto. Forse, per un momento aveva sperimentato cosa significasse essere libero. L’analogia tra ciò che aveva detto John durante la trance e la descrizione di Alvaro riguardo all’essere liberi dall’influenza del proprio ambiente non mi era sfuggita.

— Però è un sogno fatto di idee e di parole — gli ricordai. — E voi dite che non vedrete, che non potrete conoscere.

— Voi non avete dei sogni vostri — mi corresse Alvaro. — Ma la vostra saggezza terrena come giudica un uomo deforme e asessuato che crea statue?

— Può farlo — ammisi — ma non capisco dove volete arrivare. Quello che è… è. Quello che non è resta una supposizione, e per me non è importante.

— Dice a me che sono pazzo perché non sono felice, perché ho delle convinzioni e delle ambizioni, perché ho delle necessità — osservò John rivolgendosi ad Alvaro, e mi chiesi se non mi fossi reso troppo ridicolo, se non portassi quei due a trovarsi, almeno per una volta, d’accordo. — Non potrà mai convincersi di nessuna verità. È morto in tutto, anche se respira.

— Sono felice — aggiunsi.

John mi guardò di storto, ma Alvaro rise.

7. Il sogno

Alvaro ci lasciò la mattina seguente, dopo essersi profuso in mille scuse per aver fatto troppo a lungo affidamento sulla nostra carità. Mi dispiacque vederlo partire. Mi era simpatico, quell’ometto, nonostante tutte le discussioni in cui ci aveva coinvolto. Perfino John non fu molto contento d’essersi liberato di quella particolare seccatura… e lui di solito preferiva evitare il più possibile ogni fastidio.

Mentre ci salutava da lontano, Alvaro gridò qualcosa che aveva a che fare con l’augurio di rivederci un giorno o l’altro. Ormai eravamo in mezzo alle montagne, sopra la linea che delimitava la zona boschiva, circondati da un paesaggio di nuda roccia e da un vento gelido e sibilante. La strada proseguiva ed era più visibile, non perché fosse frequentata, ma perché vi erano meno piante selvatiche a invaderla e ricoprirla.

Non mi piaceva quel paesaggio monotono e lugubre, tutto creste, pareti rocciose e pietraie. Ma per John era indifferente, lo considerava semplicemente parte di un mondo pieno di desolazione.

Sapevamo di aver quasi raggiunto l’uomo che stavamo seguendo. Si muoveva ancora lentamente, e ormai eravamo così lontani da qualsiasi altro paese civile che la sua destinazione divenne certa. A est del gigantesco Picco dei Dolori c’erano tre dirupi posti a forma di triangolo equilatero: il Picco dell’Ira, il Picco delle Tempeste e il Picco Tonante. Sulle pendici di quest’ultimo sorgeva il villaggio di Hawkeyrie, al quale il nostro uomo era ritornato non più di tre giorni prima del nostro passaggio. Le speranze di John erano grandi, e anch’io pregustavo quest’attesa che anticipava la fine della nostra ricerca.

C’era solo un altro villaggio tra noi e Hawkeyrie, un unico posto dove riposare ancora una notte. Poi Hawkeyrie e la meta finale.

Al crepuscolo ci ritrovammo a percorrere con un certo fragore la discesa sassosa che conduceva al villaggio, il cui nome non avemmo mai modo di scoprire. Dalla strada principale si poteva facilmente scorgere il più vicino dei picchi, il Picco delle Tempeste, mentre il Picco Tonante era visibile spostandosi poco oltre il lato sinistro della strada.

Non riuscimmo invece a vedere la valle tra i tre picchi che avremmo percorso l’indomani. Avevamo sentito dire che era perennemente avvolta dalla nebbia e che gli abitanti delle montagne, quando desideravano andare a Hawkeyrie, sceglievano la via più ardua: le vette. Naturalmente Darling avrebbe dovuto procedere lungo la strada, e quindi non potevamo seguire esattamente il percorso dell’uomo che viaggiava nel tempo. Ma né io né John avevamo paura di una valle ammantata di nebbia, sebbene la superstiziosa gente di montagna ne parlasse con riluttanza.

C’erano delle luci che risplendevano lungo la strada principale e le tre strade laterali, e io associai subito quelle più in alto alla presenza di una locanda e di un letto per la notte. Mi fermai davanti a un edificio a più piani con numerose finestre. Non aveva insegne, cosa piuttosto strana dal momento che le locande erano anche quasi sempre taverne, e solitamente le taverne avevano dei nomi, ma al momento non feci questa riflessione e smontai per bussare alla porta. John legò Darling a un palo sulla strada e mi raggiunse proprio mentre scoprivo con sorpresa che la porta non si apriva.

Eravamo entrambi molto stanchi e poco lucidi.

Anche John provò a spingere la porta, poi scrollò le spalle e bussò con forza. Per alcuni secondi ci guardammo, incerti su cosa fare: quella non era una taverna né una locanda per viaggiatori. Poi una faccia smunta emerse dall’oscurità e ci scrutò con occhi assonnati.

— Accidenti a me — disse l’uomo. — Stranieri, perdio. Ebbene? — La sua voce era roca e sibilante per la mancanza di alcuni denti.

— Scusateci — cominciai a dire. — Volevamo una stanza per la notte e abbiamo scambiato casa vostra per una locanda.

— Eh? — disse l’altro in tono interrogativo. Non riuscivo a capire se non aveva sentito o se era soltanto stupido.

— Una stanza per la notte — disse John. — Ce l’avete?

Le palpebre si abbassarono ulteriormente e la porta cominciò a chiudersi. Poi il vecchio, come se avesse cambiato idea, la riaprì. — Nome? — s’informò.

— John, la Lucciola.

— Eh?

— La Lucciola. Lui è Matthew, mio fratello.

— Oh!

Seguì una lunga pausa, durante la quale cercammo di capire che cosa potesse ancora richiedere il vecchio.

— Ah! — esclamò costui alla fine, come se avesse preso una decisione. — Volete evasione?

John rispose di sì, forse perché la interpretò come una domanda riguardo al suo desiderio di fuga dal mondo.

— Tipo prudente — commentò il vecchio. — Non ti ho mai visto prima. Non so chi vi ha mandati. Dentro!

Spalancò la porta. Ero sicuro che ormai il nostro dialogo generasse solo equivoci; ma John era già entrato in casa e allora lo imitai.

La porta sbatté alle mie spalle ed entrambi i chiavistelli si chiusero minacciosamente. Per un attimo mi domandai chi o che cosa intendessero tenere fuori… o dentro.

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