Brian Stableford - Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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— Pagate, sì? — sussurrò, col tono di chi non ci conta troppo. Gli passai accanto e aprii i chiavistelli della porta.

Mi voltai giusto in tempo per vedere John sputare per terra.

— Eccoti pagato! — esclamò. Aveva gli occhi infocati e sembrava essere sul punto di commettere un omicidio.

— Andiamo — dissi con calma.

John diede al nano un’ultima occhiata di disprezzo, poi varcammo insieme la porta.

Darling ci guardò con rimprovero, come per ricordarci che l’avevamo costretta a rimanere attaccata al carro tutta la notte.

— Mi occupo io di lei — disse John. — Tu dà un’occhiata in giro, se vuoi.

Il sole era sorto da poco e il paese non si era ancora risvegliato. In realtà sembrava quasi disabitato. Tutte le case cadevano in rovina, le finestre erano a pezzi, murate o chiuse con assi. La vernice si staccava dalle porte e praticamente a ogni tetto mancava qualche pezzo della copertura. Mi chiesi di cosa mai vivessero. Di sicuro non dei raccolti. Senza dubbio c’erano capre e pecore sui pascoli, e legna un po’ più in basso, sempre che si prendessero la briga di trasportarla fin lì dalla zona boschiva. Ma a parte questo, cos’altro? E perché?

Mi allontanai dal paese e mi avviai lungo una salita da dove speravo di scorgere, al di là del Picco delle Tempeste, la valle triangolare attraversata dalla strada. Non riuscii a vedere nient’altro se non la nebbia di cui mi avevano già parlato.

Deluso, mi sedetti sulla cresta e cominciai a lanciare pietre giù per il pendio mirando ai tetti ai piedi della discesa. Le prime quattro mancarono il bersaglio e rimbalzarono sul fianco della montagna, mentre la quinta colpì un tetto e ruppe tre assicelle. Invaso da un gran senso di colpa, smisi immediatamente.

Riuscivo a vedere John che ritornava con Darling dall’abbeveratoio. Lo guardai prepararle il cibo e sedersi dietro di lei ad aspettare che mangiasse, con una pazienza insolita per lui.

Sospirai e cominciai a ridiscendere.

Partimmo in tarda mattinata, ma nessuno badò a noi mentre avanzavamo rumorosamente lungo la strada. La gente ora era visibile e il silenzio aveva lasciato il posto a un insieme discontinuo di rumori familiari, ma neppure adesso si poteva dire che il villaggio si fosse risvegliato. In verità, suppongo che non fosse molto diverso da un qualunque altro villaggio, ma la malinconia e l’indolenza vi avevano assunto una connotazione così negativa da renderlo unico rispetto a qualsiasi altro posto al mondo. Era un luogo ripugnante.

Mi sentii veramente felice quando superammo il valico tra il Picco delle Tempeste e il Picco Tonante e il villaggio non fu più visibile.

La nebbia ci avvolse quasi immediatamente. Avevamo visibilità solo per pochi metri da ambo i lati. La strada era invisibile e fui costretto ad andare avanti per guidare la vecchia giumenta perché non mi sentivo sicuro del percorso che avrebbe scelto.

Dopo circa venti minuti di assoluta monotonia giungemmo a un ponte a schiena d’asino. Fermai il cavallo e andai a verificarne la solidità nel caso fosse stato troppo vecchio per sopportare il peso del carro.

Scrutai da sopra la spalletta di pietra, ma non riuscii a scorgere niente di quello che c’era sotto. Raccolsi una pietra e la lanciai al di là del parapetto aspettandomi di sentire un rumore di acqua. Si sentì invece distintamente il rumore di una superficie solida.

— È strano — dissi abbastanza forte perché sentisse anche John.

— Che cosa?

— Non c’è acqua laggiù. Il ponte non passa sopra un corso d’acqua.

— Il torrente può essersi prosciugato.

— No, era roccia. La pietra ha colpito qualcosa di duro. Non l’hai sentito? — John lanciò una pietra che raccolse accanto al carro. Quando anche questa toccò una superficie solida anziché acqua, mi raggiunse.

— Ha importanza? — chiese.

— Non è molto alto. Voglio dare un’occhiata.

— Non saltare — disse.

Naturalmente non avevo nessuna intenzione di saltare. Girai intorno al bordo del ponte e scesi in equilibrio precario lungo il ripido pendio. Quando arrivai in fondo guardai in alto. Riuscivo appena a scorgere la sagoma scura della testa e delle spalle di John che si sporgeva dal parapetto del ponte.

— Allora?

— È un’altra strada — spiegai.

— Ah — disse lui, come se fossimo stati degli stupidi a non pensarci. — È tutto a posto allora.

— Forse — dissi. — Ma perché qui c’è un’altra strada? Ci sono solo Hawkeyrie e il nord, e noi stiamo percorrendo la strada principale. Questa via non porta da nessuna parte, e nasce anche dal nulla, se è per questo.

— Quindi è una vecchia strada — disse John con un pizzico di irritazione. — E allora? Proseguiamo.

Mi arrampicai per la scarpata e raggiunsi il ponte.

Facemmo attraversare il ponte a Darling senza causare il benché minimo problema alla struttura, e continuammo per la nostra strada, tenendoci uno a destra e uno a sinistra della giumenta.

Dopo mezzo chilometro domandai a John: — Riesci a vedere il ciglio della strada?

— No — rispose lui senza fermarsi.

— Nemmeno io.

— E allora?

— Cinque minuti fa vedevo entrambi i lati.

— Vuol dire che la strada sta diventando più larga — replicò con una logica perfetta. Scossi la testa senza nemmeno sapere perché.

Dopo altri tre chilometri insistei per fare sosta.

— Perché? — volle sapere John.

— Perché non vedo i margini della strada da molto tempo. Dubito persino che siamo ancora su una strada.

— Be’, non allontanarti. Non vorrei che ti perdessi. E comunque non abbiamo lasciato la strada.

John aveva ragione. A circa quindici metri alla mia destra c’era una linea irregolare che segnava il confine tra l’erba folta e la strada pietrosa.

— C’è una luce più avanti — gridò John, mentre osservavo il bordo chiedendomi di cosa mi stessi preoccupando.

Scrutai nella nebbia, ma non riuscii a scorgere niente. Udii solo il cigolio delle ruote che si rimettevano in movimento.

— Ehi! — urlai. — Aspettami.

Quando raggiunsi il carro, riuscii anch’io a vedere la luce che poi sbucò, come per magia, dalla grigia cortina di nebbia e si rivelò una lampada sorretta da un uomo alto e magro. Il suo vestito poteva essere considerato di grande eleganza sartoriale da queste parti. Lo sconosciuto si fermò e ci osservò, facendo oscillare oziosamente la lampada appesa al dito.

— Chi siete? — domandò. Aveva voce calda e piacevole. Sembrava contento di vederci.

— Siamo viaggiatori diretti a Hawkeyrie.

— Oh! — parve deluso. — Hawkeyrie.

— Non sapevamo che quaggiù vivesse qualcuno — dissi tanto per fare conversazione. — Mi chiamo Matthew, e questo è mio fratello John.

— Sono Conrad. La guida.

— La guida? Allora non vivete quaggiù?

— Sì, ci vivo.

— E allora chi guidate? — domandai.

— Chiunque voglia essere guidato.

Guardai la nebbia intorno a me. — Non dev’essere molto piacevole vivere qui — dissi. — Non avete mai voglia di vedere il sole?

— A volte. In quel caso vado a Hawkeyrie. Ma venite, non restiamo qui a parlare. Casa mia è vicina e senza dubbio avrete voglia di qualcosa di caldo.

Ne avevo veramente voglia, e John non saltò su a protestare, come forse avrebbe fatto in altre occasioni.

— Stiamo cercando un uomo capace di viaggiare nel tempo — disse John.

— Ah, “lui”. Sì, l’ho visto qualche tempo fa. È salito sul vecchio Tuono, però non sono certo che si sia diretto a Hawkeyrie. Ha parlato di un certo casino di caccia vicino alla vetta.

— Non ci dev’essere molto da cacciare lassù — commentai.

— Sul vecchio Tuono gli alberi crescono più alti che in qualsiasi altro posto qui intorno. Ci sono boschi su tutti i pendii e il paesaggio è bellissimo.

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